mercoledì 6 giugno 2018
Sarebbe escluso il movente di tipo razziale. Il volontario che ha conosciuto il giovane ucciso: non si possono lasciare in quelle condizioni, è disumano. Don Meduri: peggio di una vendetta
La marcia dei migranti (Ansa)

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A poco più di 72 ore dall’omicidio del sindacalista 29enne Sacko Soumaila, avvenuto domenica, spunta il nome di un indagato. Nel corso del pomeriggio di ieri, i carabinieri della compagnia di Tropea e della stazione di San Calogero hanno notificato, ad un uomo del posto – A.P., di 43 anni – un'avviso della persona indagata e una notifica di accertamenti tecnici non ripetibili in relazione all’omicidio, emessi dalla Procura della Repubblica di Vibo Valentia che coordina le indagini. L’uomo sarebbe il nipote di uno dei soci dell’ex fabbrica in cui sono stati sversati rifiuti tossici provenienti dalle centrali elettriche di tutta Italia. San Calogero, pur essendo in provincia di Vibo Valentia, si trova a soli 10 chilometri da San Ferdinando, sede della tendopoli che ospita le migliaia di braccianti africani che lavorano nei campi della Piana di Gioia Tauro. I carabinieri hanno rapidamente stretto il cerchio attorno al primo indiziato, aiutati dalle testimonianze dei compagni del sindacalista ucciso a colpi di pistola. Secondo le ricostruzioni, il killer avrebbe atteso i tre lavoratori nei dintorni dell’area della 'ex Fornace' per poi esplodere quattro colpi contro i migranti da una distanza di circa 70 metri. Al momento sarebbe escluso il movente razziale. (F. Crea.)

«Soumaila era un bravo ragazzo sempre sorridente». «Un gran lavoratore, non stava mai senza far niente». «Mi aiutava a distribuire i viveri e i vestiti agli altri migranti». Così lo ricordano Bartolo Mercuri e don Roberto Meduri, il primo da tanti anni volontario accanto ai braccianti africani, con l’associazione 'Il Cenacolo' collegata alla Caritas diocesana, il secondo parroco di S. Antonio in contrada 'Il bosco' di Rosarno, anche lui da tanti anni al fianco dei migranti. Dolore, ricordi ma anche indignazione. «Mi è dispiaciuto tanto, non si può morire così – commenta Bartolo –. Sono stato da loro alla vecchia tendopoli questa mattina. Ora mi dicono 'siamo diventati come le galline, ci ammazzano come le galline'. Ho cercato di consolarli, di dar loro coraggio, ma lì c’è una situazione troppo brutta – aggiunge 'papà Afrika', come lo chiamano i migranti –. Non li possono lasciare in quelle condizioni, è disumano». «Non è stata vendetta, è peggio – accusa il sacerdote –. Ancora una volta questa sistema, che non ha voluto trovare una soluzione per questi migranti, ha provocato la sua morte. È arrivato il giustiziere».

Ora, aggiunge, «non so chi pagherà alla fine per la sua morte. Anche se queste cose nella storia poi in qualche modo si pagano. Ma c’è un mondo che si sta veramente animalizzando». Bartolo conosce bene anche la fabbrica abbandonata dove il giovane è stato ucciso. Nei suoi giri alla ricerca degli 'invisibili', gli esclusi tra gli esclusi, è stato anche qui. E alcuni anni fa aveva portato anche noi a vedere dove i migranti cercavano un tetto. «Ti ricordi ci dormivano dentro ». Già perché per un po’ in quel capannone qualcuno aveva trovato rifugio, non sapendo dei veleni interrati. Poi hanno cominciato a portare via le lamiere. «Ormai la tendopoli sta diventando una lamieropoli – sorride amaramente don Roberto –. Le prendevano lì. Dicevano 'è abbandonato, non c’è cancello, non c’è recinzione'. Nulla che facesse pensare a qualcosa di custodito. E loro riciclavano. Lo si sapeva che alcuni andavano in quel capannone. Ma se c’erano problemi perché nessuno è intervenuto prima?».

I ragazzi andavano anche se, ricorda il sacerdote, «sapevano che quello era un territorio difficile. Lì succede sempre qualche cosa. Come degli strani investimenti, auto contro biciclette, facendoli finire nel fosso». Bartolo torna a ricordare quel «bravo ragazzo sempre sorridente. Lo conoscevo bene. Mi aiutava sempre. Era alto e mi proteggeva se qualcuno se la prendeva con me. Gli lasciavo i viveri e lui li distribuiva agli altri. Mi ha aiutato anche a contare le persone presenti quando ce lo hanno chiesto le autorità».

Non si risparmiava Soumaila. «Pur avendo il posto nella tendopoli nuova spesso tornava a dormire nella baracca, per solidarietà con gli altri». Aveva solo un desiderio. «Voleva fare un po’ di soldi per andarsene, per tornare a casa. Se n’è andato davvero, ma con Dio. Ora come ho aiutato lui ora farò di tutto per aiutare la sua famiglia». Ricordi analoghi a quelli di don Roberto. «Era sempre col sorriso. Anche il giorno prima di essere ucciso. Me lo ricordo bene. Una persona veramente, veramente buona. Un ragazzo veramente gentile. Non si metteva in mostra. Era schivo. Non chiedeva. Solo quando stava male gli davo le medicine. E qualche volta dei dolcetti. Voleva solo lavorare. Non stava mai senza fare niente».

Ora stava per cambiare vita in meglio. «Una ditta vicino a Reggio Calabria ci sta dando la possibilità di mandare piano piano qualcuno di qua, per farli integrare. Lui era già nell’elenco ma avendo ancora lavoro qua non era ancora partito. Aveva piccoli contratti a giornata, sfruttato e mal pagato. L’ultimo l’aveva finito e sarebbe presto partito. Finalmente con un contratto regolare per un lungo periodo». Questo era Soumaila per i suoi amici italiani. Migrante regolare, lavoratore. Con permesso di soggiorno per motivi umanitari, come si legge nei documenti che don Roberto ci invia per WhatsApp. Ma sfruttato.

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