giovedì 8 giugno 2017
Nel momento in cui tornano all'attenzione i matrimoni tra persone di fedi diverse, anche per i matrimoni tra cattolici e musulmani il criterio guida è quello ribadito in Amoris laetitia
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Nel momento in cui tornano all'attenzione i matrimoni tra persone di fedi diversi, anche per i matrimoni tra cattolici e musulmani il criterio guida è quello ribadito in Amoris laetitia: valutazione caso, per caso, discernimento, sguardo benevolo e accogliente. Che non significa negare i problemi esistenti – che sono molto spesso tanto gravi e complessi da risultare insuperabili – ma non significa neppure esprimere pregiudizi ed emanare sentenze prima di conoscere la situazione reale che varia, appunto, tra coppia e coppia.

I documenti che per la Chiesa cattolica regolano queste situazioni sono soprattutto due

Le “Indicazioni della Presidenza della Conferenza episcopale italiana – I matrimoni tra cattolici e musulmani in Italia” (2005) (LEGGI QUI) e gli “Orientamenti per la preparazione al matrimonio e alla famiglia” (2012) che dedicano al problema un lungo paragrafo. Fermarci però all’elenco delle regole da seguire negherebbe quello che papa Francesco ­– e due Sinodi mondiali – ci hanno detto a proposito della “gioia dell’amore”.

Il bene di due persone che si amano è superiore alla norma, anche se la norma non può essere cancellata, visto che si iscrive comunque nella prospettiva del bene delle persone, e che l’equilibrio tra queste due esigenze in contrasto solo apparente, va ricercato alla luce della coscienza, cioè attraverso quel discernimento che è una delle parole chiave a cui Francesco va riferimento nell’Esortazione postsinodale.

Ora, se l’atteggiamento iniziale della Chiesa di fronte a due persone che dicono di amarsi e che hanno intenzione di celebrare il loro matrimonio, non può essere altro che di accoglienza, di rispetto e di fiducia al di là delle diversità culturali, religiose, sociali, va subito detto che appunto la “bussola” del discernimento deve indurre a non sottovalutare queste differenze e a verificare con attenzione se esistono concretamente le condizioni per cui il matrimonio ma anche la semplice convivenza, possa risultare fruttuosa per il bene delle persone, per i figli che verranno, per la comunità, per le famiglie di origine.

Sguardo prudente

Le esperienze maturate in questi ultimi decenni e le differenze obiettive di tipo sociale e culturale legate ai diritti e ai doveri dei coniugi, alla differente visione del ruolo della donna, alle interferenze dell’ambiente familiare d’origine, alla patria potestà e agli aspetti patrimoniali, confermano la necessità di uno sguardo prudente e di un discernimento che non può essere né emotivo né superficiale.

Quando poi dal piano socio-culturale passiamo a quello religioso, il divario si fa ancora più consistente. Se è indubitabile l’esistenza di punti di convergenza tra la visione del matrimonio cattolico e quello islamico, è altrettanto vero che le differenze sono però tanto profonde, sostanziali e spesso insuperabili da far dire ai vescovi italiani – nel documento del 2005 – che in linea generale questi matrimoni sarebbero da “sconsigliare o comunque da non incoraggiare”.

Il dovere del discernimento ci obbliga però a valutare attentamente queste considerazione e ad iscriverle nelle diverse situazioni esistenziali. Occorre ricordare subito che, secondo il Corano, un uomo musulmano può sposare una “donna del Libro” (cioè cristiana o ebrea) mentre una musulmana non può sposare un “politeista” (Corano 5, 5) o un “miscredente” (Corano 2, 221), categorie all’interno delle quali sono annoverati anche cristiani ed ebrei. A meno che cristiani ed ebrei siano disposti a sottoscrivere la “shahada”, cioè la dichiarazione di fede islamica. Non si tratta di una semplice formalità ma di un autentico atto di apostasia della fede cattolica e di adesione formale alla fede islamica con tutte le conseguenze anche civili collegate. Non deve stupire quindi il fatto che sia davvero esiguo il numero di uomini cristiani che sposano donne musulmane.

Anche per il caso opposto però – donna cristiana che sposa un uomo musulmano – i problemi esistono, eccome. Innanzi tutto sul piano della fede. Il matrimonio sacramento – segno della grazia divina, sorgente di ispirazione valoriale, percorso di santificazione a due – è qualcosa di non sempre comprensibile per l’islam, anche se i concetti di rispetto, affetto e misericordia tra gli sposi si ritrovano anche nel Corano.

Un rapporto asimmetrico

Sempre considerando però che si tratta di un rapporto asimmetrico, che riconosce all’uomo tutta una serie di diritti (compresa la decisione unilaterale del ripudio e le scelte sull’educazione dei figli) negati invece alla donna. Manca nell’islam anche una riflessione antropologica sul significato della sessualità, sul senso e sugli obiettivi dell’intimità coniugale. Un vuoto determinato anche dalla persistenza – almeno sul piano formale – di una pratica tribale e offensiva per la donna come la poligamia.

Com’è noto il Corano concede all’uomo la possibilità di sposare fino a quattro mogli, ma subordina il permesso all’esistenza di una condizione economica tale da consentire pari “dignità” di trattamento economico a tutte le mogli. In molti Stati islamici la verifica delle condizioni economiche per l’aspirante poligamo è demandata a un giudice. Ecco perché la pratica, in considerazione di una
situazione economica sempre più precaria, è in netto regresso e alcuni Stati, come la Tunisia, l’hanno formalmente abolita. La cultura della poligamia però persiste.

Ma se, nonostante tutte queste difficoltà obiettive e questo profondo divario culturale, due persone di fede diversa (come detto lei cattolica e lui musulmano) non intendono rinunciare al loro sogno d’amore? Il documento del 2005 (LEGGI QUI) indica un attento itinerario di verifica e di preparazione, importante anche per quanto riguarda le condizioni per la celebrazione di un matrimonio canonicamente valido che possono arrivare alla prescritta dispensa dall’impedimento di disparitas cultus. Il vescovo, per gravi motivi, può arrivare anche a concedere l’esenzione dall’obbligo di avvalersi degli effetti civili del matrimonio.

L'impegno di non abbandonare la fede cattolica

I due punti fondamentali che la parte cattolica deve esprimere per ottenere la dispensa riguardano l’impegno, insito nel matrimonio, di non abbandonare la fede cattolica e di “fare quanto è in suo potere perché tutti i figli siano battezzati ed educati alla fede cattolica”. Promessa che, com’è noto, si scontra spesso con una cultura radicata nella tradizione islamica per cui, come detto, i figli sono di proprietà del padre che decide unilateralmente sulla loro sorte. In questi ultimi anni gli episodi di padri che, dopo la rottura della relazione con la moglie italiana, hanno portato i figli nei Paesi islamici impedendo ogni successivo contatto, sono purtroppo molte decine. Inutile però gridare allo scandalo e prendersela per la presunta insensibilità di queste persone verso l’ex moglie. Nella loro logica si sono comportati da bravi musulmani, adempiendo a un precetto del Corano.

Forse sarebbe stato più opportuno, proprio nella logica del discernimento, pensarci per tempo e convincersi che per superare convinzioni culturali e tradizioni religiose tanto diverse e sedimentate da secoli, non basta una generica buona volontà. “Spesso – si legge nel documento del 2005 – è dato di incontrare coppie cristiano-musulmane di profondo spessore umano e spirituale, capaci di amalgamare specificità e differenze senza abdicare alla propria identità”. Possibile, certo. Ma le statistiche ci dicono che si tratta di una minoranza esigua. E che per pochi casi a “lieto fine” ce ne sono tantissimi altri che aprono la strada a incomprensioni, ostacoli, sofferenze spesso insanabili.

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