giovedì 4 giugno 2020
«L’accesso alle documentazioni comporterebbe un pregiudizio concreto ai rapporti che intercorrono tra Stati e alle relazioni tra soggetti internazionali»
Un salvataggio del 2019 fatto in acque maltesi

Un salvataggio del 2019 fatto in acque maltesi - Archivio Ansa

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Doveva fare in fretta il giudice Joe Mifsud che a Malta indagava sul premier e il capo delle forze armate. Erano accusati della “strage di Pasquetta” (12 migranti morti) e dei respingimenti illeciti verso Libia e Italia. Le attese non sono state tradite: imputazione archiviata. Una celerità che ha però giocato un brutto scherzo, lasciando nei documenti le tracce di un colpo di spugna. A smascherare definitivamente il gioco maltese sarebbe potuto arrivare il governo italiano, che nei giorni scorsi ha accusato La Valletta di atteggiamento “assurdo” sui soccorsi e i dirottamenti segreti verso la Sicilia. Da Roma, però, è stato opposto il “segreto” proprio alla divulgazione delle informazioni che avrebbero potuto chiarire meglio cosa è accaduto a metà aprile. Un silenzio, viene spiegato, motivato dalla necessità di proteggere proprio le relazioni con la Libia e Malta, mentre quest’ultima lascia intendere di poter provare come anche l’Italia non sia del tutto estranea ai fatti.

Che la strage in mare con i morti di Pasquetta fosse molto di più che una faccenda con pochi colpevoli, era apparso chiaro fin dal momento in cui l’agenzia per i confini dell’Ue aveva scaricato le responsabilità sugli Stati che si affacciano sul Mediterraneo, Italia compresa. Le 419 pagine di atti giudiziari firmati dal giudice Mifsud rivelano contraddizioni e sottovalutazioni. Come quando, volendo spostare i riflettori, si sostiene che una conferma indiretta della connessione tra Ong e trafficanti libici è arrivata agli inquirenti da un migrante trasbordato a Malta a metà aprile. L’uomo ha dichiarato che in Libia i trafficanti lo avevano rassicurato: «C’è la nave Alan Kurdi ad aspettarvi». Questo per il magistrato è sufficiente a sostenere che almeno “indirettamente” i soccorsi facilitano il lavoro sporco dei boss libici. Un ritornello già sentito. Sarebbe bastata la più banale delle verifiche per scoprire che la Alan Kurdi era invece bloccata da giorni per ordine delle autorità italiane e che nel Canale di Sicilia non ci sono navi umanitarie da settimane. La riprova, semmai, che i trafficanti continuano a mentire alle loro vittime. Non è l’unico abbaglio.

In più passaggi il provvedimento giudiziario precisa che, come da documenti ottenuti citati da Avvenire e richiesti dalla Corte maltese al nostro giornale, l’agenzia europea Frontex aveva individuato i barconi comunicando le posizioni alle autorità di Roma e La Valletta. Nel corso delle indagini il governo italiano, per voce dei ministri Lamorgese (Interno) e Di Maio (Esteri), si era chiamato fuori, accusando Malta di comportamenti “assurdi” riguardo a dirottamenti di barconi e precisando che, nei giorni di Pasqua, La Valletta non aveva risposto alle richieste di aggiornamenti arrivate da Roma. Il giudice maltese, al contrario, sostiene che tutte le autorità marittime erano state informate, comprese quelle di Italia e Libia, lasciando intendere che ancora una volta Malta è stata lasciata da sola a gestire le emergenze. Tuttavia gli inquirenti maltesi, come risulta dall’atto di chiusura indagine e confermato da fonti militari del nostro Paese, non hanno mai chiesto alle autorità italiane di fornire copia delle comunicazioni intercorse tra Roma e La Valletta. Il tribunale non ha neanche tentato di ascoltare i 51 superstiti rispediti in Libia attraverso un motopesca dalla tripla identità individuato dapprima da Avvenire (circostanza riconosciuta dal giudice Mifusd) e infine scoperto appartenere ad una flotta guidata da un pregiudicato maltese con interessi in Libia.

Al contrario, sono stati interrogati sbrigativamente 66 migranti approdati a Malta negli stessi giorni. Audizioni a tempo di record: 30 ore, con l’ausilio di un interprete. In media, 15 minuti per ciascun testimone, di cui metà per la sola traduzione. Non è dato sapere come come abbiamo fatto in così poco tempo a raccontare le traversate nel deserto, i lunghi mesi di detenzione in Libia, i contatti con i trafficanti, poi quattro giorni trascorsi alla deriva in mare, e infine le operazioni di soccorso delle forze armate maltesi. Tuttavia di tutte le deposizioni, nel documento conclusivo giudiziario è citata una sola riga. Non è l’unica, e neanche la più grave, delle singolarità investigative. Uno dei teste chiave, il controverso negoziatore maltese Neville Gafà, l’uomo che rivendica gli accordi segreti tra La Valletta e Tripoli per il respingimento di migranti, aveva consegnato al giudice i messaggi Whatsapp con cui l’entourage del premier gli chiedeva di “facilitare” lo sbarco in Libia dei migranti intercettati dal peschereccio fantasma “Dar Er Salam I”. Il contenuto dei messaggi non è stato riportato né in copia né per esteso. Non solo. Il giudice scrive che non si è trattato di un respingimento.

Ma in altre pagine, ricostruendo gli spostamenti dei barconi, sempre il pool di inquirenti aveva precisato che le persone alla deriva erano poi entrate “nell’area Sar di Malta”. Circostanza che avrebbe obbligato le autorità al soccorso e che configura la successiva “uscita” dalla Sar maltese verso la Libia come un respingimento. A pagina 264 è perfino il capo delle Forze armate maltesi a dichiarare che il 12 aprile il dispositivo militare aveva identificato la posizione della barca nell’area di Malta alle 11.45. Ma nelle conclusioni, Mifsud sembra non tenerne conto. Il giudice suggerisce però che vi possano essere responsabilità di Frontex e dell’Italia nel mancato soccorso. Secondo il giudice, infatti, il coordinamento del soccorso spettava a Frontex e non a Malta (ipotesi mai accampata fino ad ora da nessuna autorità nazionale) perché i barconi erano stati segnalati proprio da un velivolo dell’agenzia europea per la protezione dei confini.

Un chiarimento sarebbe potuto arrivare da Roma. Nei giorni scorsi però, come di consueto non sono andate a buon fine le richieste di accesso agli atti presso il ministero dell’Interno e delle Infrastrutture. Se dal Viminale hanno fatto sapere di non possedere alcuna comunicazione a riguardo dei barconi alla deriva. Nelle stanze del ministero delle Infrastrutture è avvenuto un fatto nuovo. Rispondendo all’istanza dell’avvocato Alessandra Ballerini per conto dell’associazione “Diritti e frontiere”, gli uffici del ministro De Micheli hanno delegato il Comando delle Capitanerie di porto a fornire una risposta. Eccola: «L’eventuale accesso alle comunicazioni/ documentazioni relative agli eventi Sar di cui trattasi, comporterebbe un pregiudizio concreto ai rapporti che intercorrono tra Stati e dalle relazioni tra soggetti internazionali, in particolare con il governo libico e maltese». Qualcosa in più però si deduce. E si tratta di informazioni interessanti per almeno due Procure: quelle di Ragusa e Siracusa che indagano sui respingimenti di Malta e dovranno capire se davvero l’Italia non si fosse mai accorta di nulla. Una faccenda che non riguarda solo i governi ma anche non meglio precisati “soggetti privati”, probabilmente navi commerciali al corrente o che hanno assistito ad episodi oggetto d’indagine. «Sussiste – spiegano ancora dalla Capitanerie – il limite della libertà e segretezza della corrispondenza sui numerosi atti pervenuti e trasmessi ai soggetti privati e pubblici italiani e stranieri».

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