martedì 5 maggio 2020
Non si fermano i viaggi della disperazione dei profughi nel Mediterraneo
Naufragio di Pasquetta, Malta nega. I parenti dei morti chiedono giustizia
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La sera tra il 9 e il 10 aprile dalla spiaggia di Garabulli, a circa 50 chilometri da Tripoli, una serie di barconi vengono messi in mare dai trafficanti. Quando si avvicinano alle acque di competenza maltesi, un aereo di Frontex li individua e comunica agli Stati costieri la loro esatta posizione. Quattro gommoni vengono soccorsi con giorni di ritardo. Un quinto viene lasciato alla deriva per cinque giorni: 5 morti e 7 dispersi. Il 16 aprile 51 superstiti vengono sbarcati a Tripoli.

Si complica l’affaire maltese sulla Strage di Pasquetta con 12 migranti morti e 51 respinti verso la Libia. Ieri è stato interrogato il primo ministro Robert Abela, indagato per omissione di soccorso e respingimento illegale verso un Paese in guerra. In apparenza, una deposizione di circostanza. Ma in tribunale potrebbe arrivare già nei prossimi giorni una novità. I congiunti di alcuni dei migranti morti e identificati con dati e foto da Avvenire, hanno già contattato alcuni legali per chiedere giustizia.

L’accusa è quella di avere abbandonato in mare i naufraghi per cinque giorni, e di averli poi riportati in Libia con un motopesca libico (ma di proprietà di un maltese) che anziché richiedere l’evacuazione medica urgente per cinque eritrei in fin di vita, si è diretto verso Tripoli. Lunghe ore di navigazione che hanno fatto ridurre il numero dei sopravvissuti da 56 a 51: cinque i cadaveri giunti nella capitale libica nei giorni successivi alla Pasqua, mentre sette sono annegati quando nessuno si decideva a intervenire.

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Il primo ministro laburista davanti al giudice ha respinto l’accusa di aver ordinato un respingimento. «Il peschereccio ha bandiera libica e dunque si è recato nel suo Paese», ha provato a spiegare. Una versione che dovrà essere valutata alla luce del diritto marittimo internazionale. L’intervento del motopesca è avvenuto in acque di competenza maltese e sotto il coordinamento delle forze armate de La Valletta che, da quel momento, assumeva la responsabilità delle operazioni e della protezione delle vite umane. Lasciando il palazzo di Giustizia, Abela ha anche sostenuto che sui migranti non è in corso alcun braccio di ferro con Italia e Bruxelles, ma che la chiusura del porto maltese è dovuta esclusivamente alla pandemia. Tuttavia ha poi aggiunto che «quando da Bruxelles ci daranno garanzie sulla redistribuzione in Europa, allora li lasceremo sbarcare». Parole che contraddicono la decisione di tenere i profughi in quarantena a bordo di navi commerciali.

Da quasi due settimane, Avvenire attende risposte a una serie di quesiti presentati al governo e alle forze armate maltesi, che non hanno mai replicato. Lunedì una fonte diplomatica ha preannunciato in mattinata una lettera in cui sarebbe stato «tutto chiarito al cento per cento» cosa è davvero accaduto alla vigilia di Pasqua e nei giorni seguenti. Purtroppo, neanche stavolta l’atteso chiarimento è arrivato. A quanto trapela, rispondendo alle domande del magistrato inquirente Joe Mifsud, Abela avrebbe escluso che il controverso mediatore libico Neville Gafà, fino allo scorso gennaio consulente remunerato dal governo, sia stato incaricato di coordinare l’intervento del motopesca. Tuttavia ha il primo ministro confermato ancora una volta ai giornalisti che «Gafà era stato coinvolto per via dei suoi contatti in Libia», allo scopo di facilitare il rientro del motopesca a Tripoli.

Una spiegazione che ha suscitato perplessità negli ambienti giudiziari: perché un’imbarcazione libica aveva bisogno di un negoziatore da La Valletta per tornare nel proprio porto d’origine a Tripoli? Lo stesso Gafà, che tre anni fa aveva siglato gli accordi tra Malta e alcune delle fazioni libiche, è stato interrogato nei giorni scorsi e ha ammesso di essere intervenuto su richiesta del governo e di avere coordinato tutti i respingimenti degli ultimi anni. Operazioni condotte in modo riservato senza che mai ne fosse stata data comunicazione, fino a quando le inchieste giornalistiche non hanno permesso di scoprire l’esistenza di una flotta di base a Malta ma con bandiera libica, adoperata per catturare i migranti. Ma il braccio di ferro tra Italia e Malta è tornato nel vivo ieri quando un cargo è rimasto bloccato con 78 naufraghi salvati nell’area di ricerca e soccorso Maltese, ma in un tratto di mare geograficamente più vicino a Lampedusa. Dopo un lungo stallo l’armatore ha avuto rassicurazione riguardo all’assegnazione di un porto italiano.

Mentre a Lampedusa si è risolto un episodio che ha visto per protagonista la parrocchia. Un gruppo di 78 naufraghi, salvato da due motovedette, è stato lasciato all’addiaccio sul molo militare per una notte e un giorno. «Come sacchi della spazzatura», ha denunciato don Carmelo La Magra. Il parroco dell’isola ha offerto la disponibilità di un immobile che ha permesso di portare al riparo i migranti. Nelle stesse ore si è conclusa la quarantena dei 183 stranieri a bordo del traghetto Rubattino, con lo sbarco dei migranti atteso per la tarda serata di ieri.


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