sabato 9 novembre 2013
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È lapidario, Enrico Letta: «La seconda rata dell’Imu non si paga, non si torna indietro. Le decisioni politiche sono state prese, non ci sono pretesti per altri terremoti e polemiche. Le mie parole sono secche e ultimative per evitare altri cortocircuiti». Il premier parla al termine di un Consiglio dei ministri che non ha affrontato il decreto riguardante il saldo dell’imposta sulla casa, ma avverte comunque l’esigenza di mettere le cose in chiaro: è vero che Saccomanni, qualche giorno fa a Londra, ha ammesso che trovare le coperture è difficile, ma il ministro dell’Economia si è limitato a dire, spiega il premier, «ciò che tutti sappiamo», ovvero che a fine anno un intervento da 2,4 miliardi di euro è sostenibile solo con un aumento di tasse, sebbene una tantum.Il decreto dunque arriverà, sebbene i nodi siano diversi. C’è la tentazione di far pagare i terreni agricoli, diminuendo la somma da recuperare. Ma il Pdl alza il muro. Allo stesso tempo, diverse delle coperture ipotizzate e sollecitate risultano difficili da incassare subito. È il caso della ricapitalizzazione di Bankitalia. Resta in piedi invece il maxi-anticipo d’imposta chiesto alle banche, mentre le imprese dovrebbero essere salvate. Ma il punto politico ormai è chiaro: se l’abrogazione della rata del 16 dicembre prevederà un corrispondente aumento d’imposte, i berlusconiani, i montiani e anche l’Udc assumeranno posizioni molto critiche. Perciò anche la tempistica del decreto è in dubbio: meglio vararlo prima del Consiglio nazionale del Pdl del 16 novembre, offrendo un’arma ad Alfano nel dibattito interno, o rinviare nel timore che il provvedimento diventi un boomerang per il vicepremier? In ogni caso le parole del presidente del Consiglio sembrano invece escludere un parziale ritorno indietro dell’esecutivo, magari in coincidenza con la scissione dell’area governativa del Pdl.Di certo ieri Letta - che è anche tornato sul caso degli "attributi d’acciaio", attribuendo al giornalista irlandese che l’ha intervistato un’espressione così forte e colorita - ha voluto perseguire un doppio obiettivo politico: blindare contemporaneamente Saccomanni e Alfano, nel mirino, per motivi opposti, dei falchi Pdl. Il premier, anche sulla manovra, ha dato mandato ai viceministri Fassina e Casero, e al sottosegretario Legnini, di ragionare sugli emendamenti dando quasi per scontato che parte del Pdl voterà contro, e di concentrare il confronto con i governativi azzurri. In particolare sulla service tax, vero punto di scontro. D’altra parte alcune delle proposte di modifiche provenienti dagli azzurri hanno il sapore della sfida, come la vendita secca di tutte le spiagge italiane. E nemmeno può essere considerata una casualità il fatto che l’atteso incontro tra il premier e i gruppi parlamentari Pdl si sia ridotto ad un faccia a faccia tra una pattuglia azzurra e una rappresentanza del governo. Insomma, non c’è aria di "patti organici".

Si naviga a vista, tappa dopo tappa. La manovra, la decadenza, il congresso Pd. Solo dopo si potranno rifare i conti sulla durata dell’esecutivo. Dalla visuale di Palazzo Chigi, il Consiglio nazionale Pdl e le primarie democratiche pari sono quanto a insidie per il governo. Le recenti parole di Renzi sul ministro Cancellieri («Se si fosse dimessa avrebbe reso un servizio al Paese...») sembrano l’annuncio di un radicale cambio di linea nel partito. A quale scopo? La sensazione è che il rottamatore userà qualsiasi finestra di voto disponibile, anche quella del prossimo giugno, poco dopo il voto europeo e a poche settimane dall’inizio del semestre Ue a guida italiana. Un azzardo di cui Letta e Alfano hanno parlato, concordando che le fila vanno serrate almeno sino a marzo. Solo dopo questa deadline l’esecutivo si potrà ritenere totalmente al riparo. Ma molto, moltissimo dipende da due fattori: quanti cittadini andranno alle primarie e quale sarà la portata della vittoria di Renzi. Con meno di 2 milioni di votanti e con una vittoria non mostruosa su Cuperlo, Letta comincerebbe a vedere la fine della salita.

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