sabato 16 gennaio 2016
Il giurista Ferrante: non c’è piena parificazione al matrimonio
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Lpensioni di reversibilità sono tornate al centro dell’attenzione politica. La possibilità che vengano estese a forme di unione diverse da quella matrimoniale ha riacceso il dibattito sui costi di questo istituto, sulla sua attualità, oltre che sul suo valore e significato storico. I trattamenti pensionistici di reversibilità a beneficio del coniuge vedovo e degli altri congiunti superstiti nascono, nella legislazione dell’età moderna, innanzi tutto come logica conseguenza della protezione contro gli infortuni del lavoro. Nel sistema della pensione di vecchiaia è solo nel 1939 che viene riconosciuto per la prima volta il diritto alla reversibilità a beneficio dei familiari superstiti. Il riconoscimento del diritto di reversibilità al coniuge si afferma quindi nella prospettiva di favorire il ruolo familiare delle donne. Il sopravvenire della Costituzione, che omette di pronunziarsi al riguardo in maniera espressa, non innova il significato della norma, che viene così a fondare il diritto al riconoscimento della pensione, o di una parte di questa, sull’apporto che la famiglia ha arrecato al benessere globale e alla società, sopportando le incombenze e i costi del sostentamento e dell’educazione della prole. Si potrebbe dire che la reversibilità assicurata al coniuge sia una proiezione del riconoscimento dei diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio (secondo la bella formula adottata dall’art. 29 della Costituzione), consentendo ai coniugi di pianificare la divisione dei ruoli all’interno della coppia, e quindi riconoscendo indirettamente al lavoro familiare e di cura lo stesso rilievo del lavoro salariato. In questa luce il diritto alla reversibilità a beneficio del coniuge è un istituto ancora necessario e non suscettibile di essere sostituito da un generico intervento di sostegno finanziario a quanti siano privi di mezzi autonomi. Né la misura differenziata dell’assegno di reversibilità può considerarsi priva di logica: dopo la riforma Dini-Treu del 1995 l’esatta percentuale di reversibilità è determinata dalle complessive condizioni economiche del beneficiario; mentre i contributi versati sono considerati se non proprio come un reddito comune ad entrambi i coniugi (così è nella comunione dei beni), quantomeno come una riduzione delle entrate a carico di tutta la famiglia. Insomma, se non ci fosse più una tutela come la pensione di reversibilità, ognuno dei coniugi dovrebbe essere più attento alla propria condizione particolare, accumulando per sé solo ricchezze idonee ad assicurargli autonomia economica, anche in termini di contributi previdenziali. Ed è questo il motivo per cui in caso di convivenza more uxorio, nessun diritto viene riconosciuto al partner superstite, considerato che la coppia, rifiutando implicitamente il matrimonio, ha inteso lasciare la relazione esistente sul piano dei semplici rapporti di fatto. È alla luce di quanto si è ora detto che può essere valutata la questione del riconoscimento di un diritto alla reversibilità anche all’interno di forme istituzionalizzate di unioni omosessuali, almeno per l’ipotesi che un’eventuale disciplina di legge preveda per entrambi i partner obblighi di sostegno e assistenza reciproco, sul piano morale e materiale (parificando per questo limitato aspetto le 'unioni' al matrimonio). L’eventuale riconoscimento di formazioni sociali (art. 2 Cost.) basate sulla condivisione delle responsabilità e sulla messa in comune dei propri redditi, finisce infatti per proiettarsi nel campo previdenziale, facendo sorgere l’obbligo dello Stato ad estendere anche in questa direzione il riconoscimento del diritto alla reversibilità, come già si legge in qualche pronunzia della Corte europea di Giustizia. Di fronte a questa prospettiva non si dovrebbe dimenticare che la pensione ai superstiti oggi è riconosciuta non solo al coniuge rimasto vedovo – e con esso ai figli minorenni, studenti o invalidi – ma anche ai genitori e ai fratelli e sorelle conviventi con il lavoratore o il pensionato defunto, seppure solo in assenza di altro soggetto che ne abbia diritto. Il riconoscimento di questi ultimi legami, forme di solidarietà meritevoli di tutela pubblica, non si pone però negli stessi termini di quello che va al coniuge: la percentuale a valere sulla pensione, infatti, è molto inferiore rispetto a quanto viene attribuito al superstite nell’ambito del matrimonio. Non è difficile leggere in questa scelta del legislatore un diverso apprezzamento circa il vantaggio che i vincoli istituzionalizzati di solidarietà apportano al benessere generale, atteso che, storicamente e statisticamente, ben diverso è il contributo che il matrimonio può assicurare alla società, anche nei termini della garanzia della sua perpetuazione, rispetto alle convivenze che si instaurano fra diversi membri di una stessa famiglia. Il riconoscimento di vincoli di solidarietà diversi da quelli coniugali, quindi, non implica necessariamente una piena parificazione al matrimonio di ogni altro rapporto fondato sull’amore reciproco. Nel caso delle pensioni di reversibilità, dunque, il tipo di protezione formulata dal Parlamento può essere graduata secondo valutazioni di meritevolezza, senza incorrere in una successiva valutazione di legittimità da parte della Corte costituzionale o di altro giudice sovrannazionale. * Ordinario di Diritto del lavoro nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano © RIPRODUZIONE RISERVATA Intervento
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