giovedì 27 febbraio 2020
A Lanciano da 6 anni i detenuti lavorano per una multinazionale di pasticceria. Il progetto di reinserimento ha coinvolto 35 persone; e qualcuno è già cambiato
Un detenuto nel laboratorio dolciario del carcere di Lanciano

Un detenuto nel laboratorio dolciario del carcere di Lanciano

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«Ci vedono solo come criminali, come mostri. Ma quello che facciamo qui se lo mangiano in tutto il mondo». Raffaele è un padre di 43 anni. Con una mano si sistema gli occhiali sul naso, con l’altra stringe una ciotola che trabocca di mandorle calde: emanano un profumo buono di zucchero e caramello: «Assaggi, sentirà che buone! Da questo laboratorio escono solo cose di qualità».

Il posto da cui «escono solo cose di qualità» è una stanza sterilizzata, di un biancore asettico. Si trova tra le celle del carcere di Lanciano (Chieti), dove Raffaele è recluso da due anni, da quando è stato condannato al regime di alta sicurezza previsto per reati associativi e di criminalità organizzata. Ed è sempre qui che lavora part-time, insieme ad altri 8 detenuti. Sono tutti dipendenti della D’Orsogna Dolciaria, storica ditta che sorge a pochi chilometri dal casello della A14; una specie di tempio sacro del buon cibo che, nell’immaginario di tanti, continua a essere quel gioiello a conduzione famigliare intrecciato alla storia di San Vito Chietino.


Assunti come normali operai part-time, gli ospiti del penitenziario chietino producono quasi il 5% dei profitti dell’azienda.
Un addetto: «Questa attività mi ha aiutato a capire che non ero solo un delinquente».

Poco importa che l’azienda nel 2017 sia stata acquisita dalla svizzera Barry-Callebaut, un gigante mondiale che tra i clienti principali conta le più grandi multinazionali del dolciario. Il carcere dista un pugno di chilometri dall’industria, ci si arriva imboccando una stretta lingua di asfalto che spezza in due la campagna chietina. Con indosso una mascherina, Raffaele cammina tra le vasche d’acciaio in cui le granelle riposano. E racconta il funzionamento delle bassine, bocche metalliche in cui vengono cotti quintali di frutta caramellata. Mandorle e nocciole lavorate che, ogni giorno, escono dalle mura del penitenziario per perdersi nel mondo, approdando sotto forma di dolci e gelati a orizzonti lontanissimi, luoghi per ora preclusi alla manodopera da cui sono stati generati. Il progetto include gli obiettivi di reinserimento promossi dalla legge Smuraglia, che incentiva l’assunzione di detenuti concedendo alle aziende sgravi fiscali.

Ma l’avventura cominciata nel 2014 nel carcere chietino per volontà dell’allora proprietario Valerio D’Orsogna ha anche una forte vocazione imprenditoriale. I dipendenti del penitenziario sono trattati come gli altri 290 lavoratori dell’azienda. In un anno i detenuti hanno prodotto 615 tonnellate di merce, sulle 13.794 totali uscite nello stesso arco di tempo dalla Barry-Callebaut-D’Orsogna: il laboratorio del penitenziario contribuisce cioè con una percentuale del 4,45% ai profitti dell’intera macchina. Il costo annuo di 4.000 euro per la formazione è a carico dell’azienda. «I detenuti lavorano dal lunedì al venerdì, part-time, così è stato possibile assumerne di più – spiega Gianfranco Nocilla, consulente aziendale che ha curato il progetto dall’inizio –. Per loro essere assunti significa dimostrare alla famiglia che non sono più un peso. E si ritagliano una parentesi di normalità». L’esistenza del laboratorio in carcere non è un segreto, ma non c’è stata ancora diffusione mediatica. «Sul retro della confezione dei gelati, dove si citano i luoghi di produzione, il carcere di Lanciano non compare mai – lamenta Lucia Avvantaggiato, direttrice del penitenziario –. Le multinazionali temono un cattivo ritorno di immagine.


La direttrice del penitenziario: «Peccato che sulle etichette il nostro carcere non appaia tra i luoghi di produzione, ma bisogna capire: non tutti sono pronti ad accettarlo»

Ma il silenzio alimenta il pregiudizio che pesa su chi è in carcere». Anche l’amministratore delegato, Lorenzo Maria Aspesi, conferma: «La questione è delicata. Alcune multinazionali vogliono rafforzare l’aspetto sociale e accettano volentieri che tra il personale ci siano detenuti. Altre non sono pronte». Finora i detenuti coinvolti sono stati circa 35. Tra questi c’è anche Germano, oggi un uomo libero che ha trovato nello stabilimento della Barry-Callebaut- D’Orsogna una ragione per chiudere con la malavita: «Dei miei 48 anni ne ho passati dieci dietro le sbarre – racconta –. Finire in cella è stata la mia fortuna, non esistevano altre strade per uscire vivo dal giro della delinquenza». Germano ora vive poco lontano dall’azienda, in una casa per cui ha firmato il contratto dopo aver ricevuto cinque rifiuti. «Per la gente sarò sempre un delinquente... Capisco che non si fidi; ma lavorare in carcere mi ha aiutato a convincermi che non ero soltanto quello schifo. E a non ricadere nella vecchia vita una volta fuori dalle sbarre».

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