sabato 18 aprile 2009
Viaggio nel cuore cristiano della città Don Nunzio: saremo pronti per fine agosto
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«La basilica? Laggiù, dietro la tendopoli», indicano gli alpini all’incrocio. E ti trovi in mezzo a una geometrica per­fetta falange di tende blu. Qualcuno, a un filo, ha già steso il bucato. Due bambini si rincorrono, il più piccolo ha un foglio col suo nome incollato sul petto: Pietro, si chiama. Le tende degli sfollati di questa periferia del­l’Aquila sembrano strette vicino alla basilica come in cerca di protezione. Collemaggio, duecentesca meraviglia abruzzese eretta da Pietro da Morro­ne, futuro Celestino V, Papa del «gran rifiuto», esternamente pare quasi sal­va. Protetta dalle impalcature di un restauro la facciata, e il lato sinistro, allo sguardo di chi s’avvicina, sem­bra aver retto la terribile spallata. Ma se avanzi e allunghi lo sguardo at­traverso la grande Porta del Giubi­leo socchiusa, vedi lo sfacelo: mon­tagne di travi e detriti sotto al sole, nell’ampia breccia del tetto crollato. È un guscio vuoto Colle­maggio, la basilica dove fu incoronato Celestino V, il 29 agosto 1294, con una festa immensa di popolo e di principi. L’aveva voluta, l’ex monaco Pietro, sul luogo del suo ingresso all’Aquila, di ri­torno dall’incontro con Gre­gorio X, a Lione. Qui Pietro si era fermato a dormire, qui a­veva sognato la Madonna che gli chiedeva, in quel luo­go, una grande chiesa. Ci vollero sette anni, nel Due­cento, per costruire questa meraviglia. La guardi, in mezzo alla polvere che an­cora al passaggio dei mezzi di soccorso si solleva come fumo dalle braci di un in­cendio: e ti chiedi quanti ce ne vorranno per ricucirne le ferite, oggi. Davanti alla Porta giubilare il rettore, don Nunzio Spinelli, mostra in questi giorni di ro­vina una tempra ottimista. Il 28 e 29 agosto a Collemaggio, da oltre settecento anni, c’è la Perdonanza, il rito di perdono e in­dulgenza decretato da Celestino alla sua nomina. Vengono qui in cento­mila. Collemaggio è il cuore cristia­no dell’Aquila e dell’Abruzzo. Vengo­no da lontano; tornano anche gli e­migranti – e quanti – partiti da que­sta terra. E don Nunzio nel rombare dei motori delle gru non si arrende: forse, dice, si può mettere la struttura in sicu­rezza, almeno, per l’estate. Forse la Perdonanza si può fare. E si passa u­na mano sulla fronte, come a scac­ciare paura e ricordi. Di quella notte stanca dopo la folla della domenica delle Palme, del sonno interrotto bru­talmente dal sussulto rabbioso del letto e dal gemere dei vecchi muri. Dopo pochi minuti, nel buio pesto, il sacerdote ha aperto la porta che dal­la canonica s’affaccia in basilica: «Al­lora ho visto il cielo. La luce della lu­na dalla voragine del tetto crollato ri­schiarava le navate». E Celestino? Don Nunzio ha pensato al santo. La cupola sopra la sua tomba era crol- lata. «Ma la teca di cristallo con le sue spoglie, intatta», dice, e sorride. Ora le gru issano la cinquecentesca Ma­donna di legno, quasi integra, solo le mani spezzate. Un segno forse, in questi giorni di strazio. Ma a pochi metri nelle tende del cam­po rannicchiate davanti alla basilica come attorno a una chioccia gli sfol­lati vivono la loro faticosa mattina. Incroci una suora, non giovane, in­daffarata. Suor Annamaria, delle Francescane minori di Gesù bambi­no, dell’Istituto di santa Maria degli Angeli – qui accanto. Una scuola con duecento bambini. (Grazie a Dio, pensi, è accaduto di notte). Venti­quattro sorelle, di cui in tante molto anziane, in un convento ottocente­sco. Madre, come avete fatto a mettervi in salvo? Sorride lei, allarga le braccia, co­me a dire: in verità, non so. «Al­l’urto, al boato siamo scese in ve­ste da notte, le più giovani hanno aiutato le anziane a scendere co­me potevano le scale. Sono state loro, però, a indicarci la sala più sicura del convento, quella col soffitto a vol­te. Perché sapevano, gliel’avevano detto i loro vecchi in questa terra che trema da sempre, che le volte reggo­no meglio le spinte del terremoto. Fa­ceva freddo, le più vecchie tremava­no, alcune di noi sono tornate indie­tro a prendere delle coperte. È stra­no: in quegli istanti scordi la paura, se hai qualcuno più debole di te da proteggere». E poi, nel buio della corrente saltata, nel silenzio del telefono isolato, ven­tiquattro suore strette assieme in u­na stanza a pregare, nell’attesa del­l’alba. Suor Annamaria confessa che non smetteva di pensare ai bambini di cui è maestra – 21 bambini di se­conda elementare. Le loro facce, i lo­ro occhi che si alternavano nei pensieri, come grani di un altro silenzioso rosario. Sono tutti salvi. Qui in tenda, o al mare, a Pescara. «Abbia­mo bisogno di spazi per ri­cominciare la scuola, il con­vento è gravemente lesiona­to », dice la suora. Intanto, lei e altre cinque sorelle in buo­na salute sono tornate, a aiu­tare. Tornate con l’abito che hanno addosso, coperte, biancheria, null’altro. Anna­maria, ex missionaria nelle Filippine, ha i capelli grigi. E ora? domandi. Lei tace un at­timo, poi, serena: «Se Dio ci toglie tutto, è perché dob­biamo ricominciare». Dietro di lei Collemaggio, la regale basilica costruita con gli ori e le armi dei caduti della bat­taglia di Tagliacozzo, fra gli e­serciti di Corradino di Svevia e Carlo d’Angiò – oro in cam­bio di indulgenze – è in ma­cerie. Risorgerà. Una città, ha bisogno di un cuore.
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