sabato 10 marzo 2012
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​Chi ha visto negli occhi la disperazione dei migranti, lasciati per giorni in balìa delle onde, chi ha toccato le loro mani, curato le loro ferite, ascoltato le loro storie, non è più lo stesso. «Perché quello che abbiamo sperimentato è stata una provocazione enorme e la risposta che la popolazione ha dato ha commosso il cuore di Dio, facendoci riappropriare della nostra umanità» afferma con emozione don Stefano Nastasi, parroco di San Gerlando, la chiesa che a Lampedusa, per gran parte del 2011, si è trasformata in centro di accoglienza, di ascolto, di assistenza per le migliaia di migranti sbarcati sulle coste di quello scoglio nel Mediterraneo. A un anno dall’emergenza a Lampedusa, la Fondazione Migrantes ha deciso di incontrare a Palermo, al Palazzo dei Normanni, alcuni dei protagonisti di quei giorni e riflettere con loro sull’esperienza fatta, su “L’immigrazione… Che non si dice”, quella che è una risorsa, ma che è soprattutto fatta di persone da incontrare e accogliere.È quello che hanno fatto gli abitanti di Lampedusa e che hanno raccontato Elena De Pasquale e Nino Arena, giornalisti messinesi volontari dell’Ufficio Migrantes di Messina, autori del libro “Sullo stesso barcone. Lampedusa e Linosa si raccontano”, edito dalla Tau, per conto della Fondazione Migrantes. Le strade di molti ragazzi africani si sono incrociate con quelle di tante famiglie lampedusane in quel fazzoletto di terra di 24 chilometri quadrati. Come quella di Mohamed Alì Benamara, 27 anni, tunisino, che nella centralissima via Roma affollata di connazionali riconosce Salvatore, lampedusano, incontrato dieci anni prima a Monastir e mai dimenticato, che diventa il suo “fratello” italiano per sempre. E vive ancora nell’isola Ahmed, 23 anni, tunisino anche lui, che sbarca a marzo per cercare lavoro e mandare i soldi alla sua mamma e trova in Giacomo e Maria Matina una nuova famiglia “adottiva”. Questa coppia lampedusana lo accoglie in casa per far caricare il cellulare scatta un affetto reciproco e immediato. «Quando è stato portato in Molise – racconta Giacomo, che è vigile del fuoco – ho cercato dei colleghi che su mia richiesta gli hanno portato un cellulare per tenerci in contatto. Averlo oggi accanto è per noi la gioia più grande». E una sorella acquisita, Francesca, gli dedica la sua tesina di maturità. Un’esperienza che ha coinvolto anche alcune associazioni presenti sul territorio, come Alternativa giovani e Askavusa, trasformate per mesi in luoghi di accoglienza e assistenza. «Quando gli occhi si perdono e si confondono in quelli spenti e impauriti di chi ha affrontato un viaggio lungo più di 25 ore nel buio e nel freddo della notte, non è che l’umanità a poter prendere il sopravvento» osserva Santino Tornesi, direttore dell’Ufficio regionale per le Migrazioni, organizzatore della giornata assieme a don Sergio Natoli e Mario Affronti dell’Ufficio Migrantes di Palermo.Il parroco di Lampedusa ripercorre con la mente le scene delle salme allineate sul molo, dei tunisini accampati nel portico della chiesa, dei salvataggi in mare, della scelta di aprire la casa parrocchiale della fraternità ai tunisini, con l’avallo del vescovo di Agrigento Francesco Montenegro, interpellato a mezzanotte in piena emergenza, e si chiede: «Ma la Comunità europea dov’è stata? Ci siamo sentiti scaricati». Eppure Lampedusa, talmente isolata che «nessuno vi nasce più, perché le donne preferiscono la terraferma – osserva don Stefano Nastasi –, è l’isola in cui si rinasce, in cui tanti immigrati sono passati e rinati, perché non sapevano se sarebbero arrivati vivi».Ma ricordare l’emergenza dello scorso anno è l’occasione per riflettere su quale accoglienza si riserva ai migranti nel Paese. Monsignor Giancarlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes, tuona contro quella sicurezza, «che nasconde rifiuto, violenza, pregiudizio e crea morte nelle nostre città», contro le ingiustizie vissute «dai 25 mila detenuti stranieri, che in nove casi su dieci non hanno la possibilità di scontare una pena alternativa». «La legge sulla cittadinanza è un segno di prossimità – aggiunge –, come lo sarebbe il diritto di voto. Non aprire questa porta dell’accoglienza, per l’Italia significherebbe non avere futuro».
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