sabato 18 luglio 2015
Intervista all'ex premier. Caso greco non chiuso, del debito si parli solo alla fine. Tsipras? Essenziale resti leader. Ai tedeschi dico sempre: urge clausola sugli investimenti.
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Mario Monti è appena rientrato dalla Germania, dove il Bundestag ieri ha detto sì al terzo piano di aiuti di Atene. Il senatore a vita, già definito il politicotecnico 'più teutonico' nel panorama italico, è rasserenato fino a un certo punto dall’evolversi degli eventi che ha caratterizzato la complessa partita fra il governo della Grecia e l’Unione Europea. E pesando le parole da scegliere, come suo costume, l’ex presidente del Consiglio (nel difficile anno 2012) lancia un pesante avvertimento sui destini che attendono la delicata costruzione europea: «Non ha senso aspettare il 2017 per i nuovi passi da compiere sull’integrazione della Ue. È qui e ora che servono queste mosse. Se i leader europei continuano nel vizietto di anteporre gli interessi nazionali, l’Europa rischia di andare a picco». Qual è il sentimento con cui la Germania ha vissuto queste settimane? I tedeschi danno sempre molta importanza al rispetto delle regole. Non sono a priori ben disposti davanti a ripetute necessità di dare aiuto a un Paese che negli anni di regole ne ha violate parecchie. In Germania, ma non solo lì, le ultime mosse di Tsipras hanno ridotto poi la sua dote iniziale di simpatia, anche con l’autogol del ricorso al referendum. Tsipras è riuscito ad andare sia contro l’interesse nazionale greco, perché questo pacchetto è più pesante di quello che lui aveva rifiutato, sia contro la democrazia perché alla fine ha preso la decisione opposta a quella sancita dalla consultazione. Ma la linea Merkel come è stata accolta? Alla fine Merkel è apparsa meno falco perché più falchi di lei sono apparsi non solo il ministro delle Finanze Schaeuble e la bavarese Csu, ma anche alcuni socialdemocratici come Gabriel e Schulz, nonché vari Paesi dell’Est e persino del Sud Europa. Il cancelliere nel discorso al Bundestag ha giustamente sottolineato che se non fosse stato fatto questo accordo si sarebbe prodotto caos e disordine, nella Grecia ma anche nel resto d’Europa, e l’alternativa non sarebbe stato l’ordine. E ha spiegato il dovere di solidarietà e il grande interesse che la Germania ha al successo della zona euro. Ma il caso greco si è risolto o è stato solo procrastinato nel tempo? Per dire che si è risolto - cosa che sarebbe un gran bene per tutti - ci sono due grossi quesiti da risolvere. Il primo, urgentissimo, è la volontà e capacità concreta del governo greco di fare le riforme richieste. C’è stato un rimpasto, vedo che si parla anche di possibili elezioni dopo l’estate. Io auspico, a differenza di tanti altri, che continui come primo ministro Tsipras. Per quali motivi è per la permanenza di Tsipras? Al momento sembra l’unico leader capace di mantenere un consenso ampio, anche se sminuito dopo questa condotta. E perché la Ue perderebbe punti agli occhi dei cittadini se desse l’impressione che sue decisioni portano come conseguenza a cambiamenti di governi, anche se sappiamo bene che non ci sono interferenze dirette. Fra i tantissimi problemi greci, inoltre, due sovrastano gli altri: l’evasione fiscale e la corruzione. E io credo che un governo comunque a guida di sinistra dovrebbe essere più capace di attaccare queste incrostazioni e le contiguità fra potere economico e potere politico. Sarà una prova cruciale: già hanno un’amministrazione debole, Tsipras deve circondarsi di ministri capaci e orientati alle riforme perché se fossero rigidi conservatori di sinistra difficilmente le riforme potrebbero andare avanti. L’altra ipoteca è quella relativa alla sostenibilità del debito ellenico. Condono parziale, scadenze e tassi da ridurre sono temi che dovranno essere messi sul tavolo, ma è bene che ciò avvenga alla fine di un serio processo di ristrutturazione, e non all’inizio. E dell’ex ministro Varoufakis, che potrebbe candidarsi nel caso di future elezioni greche, cosa ne pensa? Preso atto che le sue dichiarazioni hanno molto abbondato rispetto all’azione, lo reputo un economista intelligente ma che non ha capito la differenza fra l’essere un accademico, non privo di elementi narcisistici, e un ministro seduto sul cratere di un vulcano che può travolgere il proprio Paese e l’Europa. Ha dedicato questi mesi a spiegare in modo brillante ai suoi colleghi nell’Eurogruppo e all’universo mondo perché l’unione monetaria sarebbe stata da costruire in modo totalmente diverso, che è un argomento interessante ma in questo momento non molto rilevante rispetto alle priorità. Non è necessariamente cosa negativa che economisti ricoprano responsabilità di governo in una fase in cui i problemi dell’economia sono gravi, ma poi occorre mettere il pragmatismo e l’interesse del Paese al di sopra della propria purezza dottrinale. Lui e Tsipras restano due personalità brillanti, castigate una da se stesso, l’altra da un errore di calcolo politico. Cosa abbiamo imparato da questa vicenda? Se avremo imparato, lo dimostreranno i fatti successivi. Raramente una vicenda ha messo in luce così tante cose da imparare: una è a esempio l’uso accorto dei referendum su questioni europee, che magari dovrebbero essere su scala continentale anziché solo nazionale, anche se io resto convinto che la democrazia parlamentare sia sempre meglio della democrazia diretta. Un’altra è la grande volontà del popolo greco - il 70/80% secondo tutti i sondaggi - di stare nell’euro, un dato interessante se si pensa che altrove i movimenti populisti e no-euro sono in crescita: hanno capito che, senza l’euro, sarebbero solo un insieme di isole fluttuanti nell’Egeo, senza alcuna forza rispetto al resto del mondo globalizzato. Ci sono anche lezioni da ricavare sull’equilibrio fra disciplina fiscale e la crescita: di questi tempi vado ripetutamente in Germania e dico chiaramente che quel che manca è soprattutto il mancato riconoscimento del ruolo positivo degli investimenti pubblici. Ma l’euro è ancora, malgrado tutto, una buona idea o da opportunità si è tramutata soprattutto in una maratona di diktat? È ancora una buona idea. Se non fosse stato fatto, la crisi finanziaria del 2007/08 avrebbe fatto saltare il mercato unico e prodotto tempeste valutarie, fiammate inflazionistiche e divisioni politiche ancor più forti. E l’Europa avrebbe perso uno dei 2-3 campi in cui esiste ed è rispettata a livello mondiale, assieme al ruolo dell’Antitrust in materia di concorrenza e alla sua potenza commerciale in merito agli accordi. Purtroppo non si possono seguire i teoremi 'alla Varoufakis' perché la storia non va indietro. Non si può costruire oggi un’architettura- modello della Ue. Alcune cose vanno urgentemente introdotte: l’unione bancaria va completata, ci deve essere un minimo di bilancio comune all’eurozona, un coordinamento delle politiche fiscali e una modifica a favore degli investimenti pubblici. Queste cose, che sono indicate nel rapporto dei 5 presidenti (di Commissione-Bce-Eurogruppo-Consiglio-Parlamento, ndr), potenzierebbero moltissimo il funzionamento dell’area euro. In una Ue che è in uno stato d’emergenza, esterna perché sotto attacco dichiarato dell’Is, interna perché i movimenti anti-euro hanno dichiarato guerra alla costruzione europea, non possiamo permetterci di ritenere più importante un’elezione nazionale. Non ha senso aspettare il 2017 perché prima ci sono le elezioni francesi e tedesche. Ma se nessuno fa una prima mossa? Bisognerebbe che qualcuno dei leader europei dicesse, in tutta franchezza: «Cari colleghi, l’Europa politica non c’è ancora, ma guardiamoci in faccia: quando andiamo al Consiglio Europeo, ci impegniamo per la salvezza e lo sviluppo dell’Europa o invece miriamo essenzialmente ai nostri interessi nazionali e di partito? ». Se tutti i 28 leader guardano in direzioni diverse sarà impervio trovare una via unica. Non può più essere accordato il vizietto diffuso che l’ansia di rielezione dei leader venga prima di qualsiasi altra cosa. Tutto sommato, rispetto alla storia d’Europa è una piccola increspatura epidermica se in Germania vince la Cdu/Csu o la Spd. Se si riduce a una somma di un insieme incoerente di decisioni nazionali, l’Europa va a picco.
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