«Due popoli due Stati, vale ancora»: gli esperti al Forum ad Avvenire

Dibattito tra Paola Caridi, Agostino Giovagnoli, Pasquale Ferrara e Gabriele Segre alla vigilia del dibattito all'Assembla dell'Onu
September 21, 2025
«Due popoli due Stati, vale ancora»: gli esperti al Forum ad Avvenire
ANSA | La bandiera palestinese davanti a un cartellone pubblicitario a San Sebastian (Spagna)
Stato di Palestina, sì o no? Al via oggi al Palazzo di Vetro di New York la conferenza organizzata da Francia e Arabia Saudita sulla soluzione dei due Stati. Il “sasso nello stagno” lanciato dal presidente francese Macron il 24 luglio ha avuto un effetto domino su altri Paesi occidentali e sull’opinione pubblica. Gran Bretagna, Australia e Canada, insieme al Portogallo, hanno annunciato ieri, domenica 21 settembre, il riconoscimento formale dello Stato di Palestina, mentre Francia, Belgio e altri Paesi faranno lo stesso all'Assemblea Generale dell'Onu.
Con una lettera aperta, una settantina di ex ambasciatori italiani alla fine di luglio ha chiesto al governo italiano il riconoscimento della Palestina e «gesti diplomatici concreti», come lo stop alla cooperazione nel settore militare con Israele, il sostegno a sanzioni Ue individuali nei confronti di ministri che incoraggiano il moltiplicarsi di insediamenti illegali. Da allora si è avviata una mobilitazione dal basso che ha coinvolto ex diplomatici della Ue, di Regno Unito e Germania. Pochi giorni fa anche il Parlamento Europeo ha chiesto agli Stati membri di «valutare il riconoscimento dello Stato di Palestina». Ne abbiamo parlato durante un forum organizzato nella sede milanese di Avvenire con Pasquale Ferrara, Paola Caridi, Gabriele Segre e Agostino Giovagnoli.

I partecipanti al nostro Forum

Gabriele Segre - Direttore della Fondazione Vittorio Dan Segre, intitolata a suo nonno, scrittore e giornalista israeliano di origine italiana, tra i fondatori dello Stato ebraico, scomparso nel 2014. Gabriele è cresciuto a Torino e ha studiato in Università italiane, americane e del sud-est asiatico. Ha lavorato per anni per le Nazioni Unite occupandosi di temi di leadership e riforma dell’organizzazione. Collabora con diverse testate giornalistiche. Il suo ultimo saggio è “La cultura della convivenza”, pubblicato nel 2024 da Bollati Boringhieri.
Pasquale Ferrara - Casertano di nascita, è in diplomazia dal 1984 dopo la laurea inScienze Politiche. Tra i numerosi incarichi svolti, è stato ambasciatore d’Italia a Santiago del Cile e ad Algeri, primo consigliere a Washington, portavoce del ministro degliEsteri, inviato speciale per la Libia. Da maggio del 2021 fino a pochi mesi fa è stato Direttore generale per gli Affari politici e di sicurezza della Farnesina. Attualmente è docente di Diplomazia e Negoziato alla Luiss. È autore di numerose pubblicazioni tra cui “Cercando un Paese innocente” (Feltrinelli, 2023) e “Il mondo di Francesco” (SanPaolo, 2016).
Paola Caridi - Giornalista e saggista esperta di mondo arabo e di MedioOriente, è presidente dell’associazione di cronisti Lettera22. Autrice tra le altre pubblicazioni di “Arabi invibili” (2007) e Hamas (2009, riedito nel 2023) e, sempre per Feltrinelli, di “Gerusalemme senza Dio” (2022 ed. aggiornata). Dal 2001 al 2003 è stata corrispondente dal Cairo e per i successivi dieci anni ha vissuto e lavorato a Gerusalemme, città alla quale ha dedicato anche due libri per bambini e un testo teatrale. Oggi è in libreria anche con “Sudari, Elegia per Gaza”.
Agostino Giovagnoli - Storico, ora professore emerito, dal 1993 insegna all’Università Cattolica di Milano. È stato presidente della Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea (Sissco). I suoi studi hanno riguardato i rapporti tra Stato e Chiesa, la Chiesa in Italia tra XIX e XX secolo e il cattolicesimo politico italiano. Si è occupato inoltre di storia d’Italia, in particolare per quanto riguarda il periodo repubblicano. Si è anche interessato di storia delle relazioni internazionali nel XX secolo e di storia della globalizzazione. Ho svolto ricerche sulla Cina contemporanea. Al suo attivo ha decine di pubblicazioni.

Le domande e le risposte

Utile, solo simbolico, o controproducente? Riconoscere ora la Palestina, nell’attuale contesto di guerra e occupazione, è utile a un processo di pace o per fare pressioni verso la soluzione dei “due popoli, due Stati”? Oppure rischia di essere controproducente vista l’aperta contrarietà di Israele?
FERRARA. Mi stupisco che alcuni commentatori affermino che il riconoscimento della Palestina sia una novità o una provocazione. Di Stato palestinese si parlò già all’Assemblea generale Onu del 1947 e gli accordi di Oslo del 1993, con la creazione dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) avviarono il percorso verso uno “status finale” inteso da tutti come la formazione di uno Stato palestinese, che però nella percezione comune non esiste, a differenza di Israele. La domanda, allora, è: cosa si può fare affinché inizi un processo negoziale che dia dignità alla parte che non ha visto riconosciuti i suoi diritti? Il riconoscimento della Palestina è sicuramente un atto simbolico, ma particolarmente forte, perché è un atto politico che dà forza al diritto all'autodeterminazione dei palestinesi. Israele persegue giustamente l’obiettivo della sicurezza, ma una sicurezza senza pace è illusoria; per questo è anche nell'interesse politico di Israele la creazione di uno Stato palestinese.
CARIDI. Quanto altro tempo dobbiamo aspettare? Lo Stato di Palestina non è solo i confini, o l’amministrazione di un territorio: è anche l’espressione del popolo palestinese. Il suo riconoscimento fa entrare in gioco cose che Israele non vuole: per esempio, il diritto al ritorno. Lo Stato di Palestina, infatti, non rappresenta solamente chi vive nei Territori, ma anche i milioni di rifugiati palestinesi in altri Paesi. Questo cozza con l'idea che uno Stato debba avere solo un territorio, dei confini ed esercitare potere su quel territorio. Sento dire che riconoscere la Palestina metta in gioco la sicurezza di Israele. Però non ci poniamo il problema della sicurezza dei palestinesi, un popolo che vive da decenni sotto occupazione civile e militare.
SEGRE. Credo che il Medio Oriente abbia bisogno di vivere una pacificazione, che non può che passare attraverso il riconoscimento dei due popoli e della loro sicurezza. Ma un riconoscimento, nei termini che verranno posti all’Onu il 22 settembre, credo sia controproducente. Condividiamo tutti il fine della pace e della non violenza, ma la politica se è solo simbolica non è politica, non è neutrale. La politica ha un ruolo diverso dal diritto: deve creare una progettualità pragmatica, non utopica, con dei passi immediati in cui le persone possano riconoscersi. Ora viviamo un momento evidentemente fallimentare per la politica, ma se nel momento del suo fallimento la politica si appella soltanto al simbolismo, ammette la sua impotenza. Se un riconoscimento simbolico non è seguito da un'attività chiara, è una risposta mancata a chi crede in quel progetto. Non so se la Francia è disposta a imporre le sanzioni a Israele e ad Hamas, ad entrare su quei territori con forze dirette o indirette. Non lo so. Ma se non c’è un percorso chiaro, chi firma per il riconoscimento disarma me che ci sto provando, che voglio questo riconoscimento. Non so se Netanyahu ha ragione quando dice che riconoscere la Palestina ora aiuta Hamas. Probabilmente Hamas è il primo nemico dello Stato palestinese, ma riconoscere ora la Palestina certamente aiuta il ministro Ben-Gvir, aiuta il sionismo religioso che si oppone della creazione di uno Stato di Palestina, crea una serie di alibi populisti, radicali, ma efficaci. E potrebbe essere il pretesto per chi dice: non possiamo fare altro che annettere il West Bank.
GIOVAGNOLI. Credo che il riconoscimento dello Stato della Palestina adesso abbia ragioni più valide dei rischi. Ha ragione Gabriele Segre: la politica ha bisogno di efficacia per non essere una controproducente declamazione di valori. Però c’è anche una “politica del diritto”: viviamo in una situazione storica inedita, in cui sono messi in discussione i fondamenti del diritto internazionale che, dal primo dopoguerra, ha posto l’obiettivo della pace. Un punto fondamentale di questo diritto internazionale è lo Stato sovrano. Il riconoscimento dello Stato palestinese significa riconoscere il diritto di un popolo a vivere, a esistere, a essere in pace. È significativo che sia stata la Francia a fare questa proposta, in dialogo con l’Arabia Saudita, mettendo in moto nuove dinamiche politiche. L’Italia sta rimandando una scelta e blocca le sanzioni europee verso lo Stato di Israele, ma la tragedia di Gaza è inaccettabile: anche il governo italiano deve prendere subito posizione, riconoscendo lo Stato palestinese.
Il problema aperto della governance Ipotizzando che questo riconoscimento avvenga, chi può realmente rappresentare i palestinesi? Hamas è un’organizzazione terroristica, l’Anp ha scarso consenso. C’è ovviamente un problema di governance. Come affrontarla?
FERRARA. Gli accordi di Oslo hanno dato legittimità all’Anp come interlocutore. È vero che dal 2006 l’Anp non si sottopone al voto popolare, ma come si organizzano elezioni in un territorio occupato, con posti di blocco e senza una effettiva sovranità? Il tema, semmai, è cosa fare per rendere più efficace, democratica, trasparente e aperta l’Autorità palestinese.
CARIDI. Mi domando come si può esercitare una governance palestinese mentre si sta compiendo un genocidio, armato anche dai nostri soldi? In questo momento mi interessa poco la governance: abbiamo una sola cosa da fare, fermare quello che è un genocidio conclamato.
SEGRE. Temo, invece, che non occuparsi della governance ponga le basi per nuove violenze. Mi viene difficile immaginare che non ci siano grandi divisioni nella società palestinese che intuiamo già ora e che, nel caso ponesse problemi di sicurezza, indurrebbe Israele a intervenire. Forse un processo politico andrebbe costruito, mentre, quando ci interroghiamo sulle nostre società occidentali, sosteniamo che la democrazia matura non è solo il voto. Questo vale anche per i palestinesi: un voto democratico ma avulso da una cultura democratica e liberale difficilmente si tiene assieme.
GIOVAGNOLI. Dopo aver riconosciuto lo Stato palestinese bisogna aiutare i palestinesi a creare una loro forma di autogoverno. La democrazia ha delle radici sociali e la società palestinese ha forme di organizzazione sociale diverse da quelle dell’Italia o di altri Paesi europei. Bisogna, allora, mettere in moto processi rispettosi, aiutare la società palestinese a trovare le sue forme di pluralismo nel rispetto delle minoranze. E coinvolgere in corresponsabilità i Paesi arabi. Non dobbiamo ripetere l’errore che si è fatto in Iraq, di organizzare delle elezioni e basta.
Come proteggereconfini così porosi

Un altro nodo che si pone è quello dei confini. Se tutti si rifanno al 1967, nei fatti si è assistito a una erosione dei Territori arabi. Su cosa converge la comunità internazionale?

FERRARA. Neppure gli accordi di Oslo affrontano il tema dei confini, pur creando l'Anp e rilanciando un processo negoziale. Con le questioni di Gerusalemme e dei rifugiati, quella dei confini fa parte della cosiddetta Road map, l’agenda lasciata alla diplomazia. Oggi un milione di israeliani vivono nei Territori occupati, in colonie illegali. Si può prospettare, un’operazione simile a quella che Sharon decise nel 2005, con l’evacuazione forzata dei coloni ? Credo che anche questo debba far parte di un pacchetto negoziale. Tra le opzioni, c’è lo scambio di territori, oppure consentire la cittadinanza di israeliani nello Stato palestinese e di palestinesi in Israele. Ma il tema di fondo è rimettere in pista un percorso totalmente deragliato, iniziando con il dare legittimità a un’autorità palestinese che abbia titolo di governo, controllo del territorio, e sovranità su una popolazione, esattamente come nel caso di Israele.
CARIDI. Il tema dei confini non mi pare così rilevante in questo momento, in qui c’è un territorio palestinese occupato. La questione dei confini, oggi, deve lasciare il posto a quella di un reale riconoscimento: mi permetto di aggiungere che non sono tanto i palestinesi che devono riconoscere gli israeliani, ma sono gli israeliani che devono riconoscere i palestinesi. La questione fondamentale è se deve esistere un popolo palestinese.
SEGRE. Parlare di confini, adesso, è una cosa che interessa noi, è un’ingegneria politica che non fa i conti con la realtà. È il vecchio vizio del neocolonialismo di leggere la realtà secondo le nostre categorie e non secondo le categorie delle persone che quelle realtà le vivono. Oggi non ci sono le condizioni per discutere di confini. Per quanto mi riguarda, penso che non dobbiamo continuare a parlare di 1967, ma dobbiamo riandare a ciò che fu stabilito nel 1948. In ogni caso, qualunque prospettiva non sarebbe accettata se garantita dall’esterno: Israele non accetterà forze di interposizione. Sono d’accordo con Paola Caridi sul fatto che mentre i palestinesi, magari loro malgrado, riconoscono gli israeliani, gli israeliani invece non riconoscono i palestinesi. Nel senso che non li incontrano, non li vedono. Dall’altra parte, però, c’è una fetta almeno di mancanza di riconoscimento non all’esistenza, ma alla legittimità all’esistenza di Israele. E allora qui torniamo al 1948, a vedere le ragioni dell’esistenza dei due popoli.
GIOVAGNOLI. I confini come fatto politico sono una invenzione occidentale, di uno Stato territorialmente delimitato con una omogeneità nazionale. L’Europa unita è nata da una relativizzazione dei confini. Molto significativo è anche quanto stabilito dalla conferenza degli accordi di Helsinki del 1975 secondo cui i confini vanno accettati come sono e, al contempo, superati. Naturalmente, i confini possono essere ingiusti ma devono essere vivibili. E attenzione pure alla mitizzazione dei popoli, perché se non si può più convivere e si arriva all’estremo alla pulizia etnica. La pace è più importante dei confini.

La posizione del Vaticano, con papa Francesco prima e poi con il cardinale Parolin è molto chiara: il riconoscimento dello Stato di Palestina «è la soluzione», come ha ribadito di recente quest’ultimo. Se la visita in Vaticano del presidente israeliano Herzog ha evidenziato difficoltà e suscitato reazioni, l’impegno del Vaticano per la pace è evidente. Quali strategie di dialogo diplomatico si possono intraprendere in questa situazione così complessa tenendo conto pure della decisione del Patriarcato di Gerusalemme di non abbandonare la parrocchia della Sacra Famiglia a Gaza?

GIOVAGNOLI. C’è il peso della storia che rende molto complicata la posizione della Santa Sede. I cattolici devono farsi perdonare secoli di anti-giudaismo e il rapporto con lo Stato-Israele, è arrivato solo con Giovanni Paolo II. C’è un’antica tradizione cattolica antigiudaica e una tradizione cattolica filo palestinese più recente. Questo è anche legato al fatto che c’è una lunga presenza cristiana nel mondo arabo e palestinese. Quanto alla parrocchia della Sacra Famiglia a Gaza credo che l’idea di fondo è che debba essere rispettata esattamente come tutto il popolo palestinese e chi si è in essa rifugiato non deve essere costretto all’esilio. ll desiderio preminente è la pace e il riconoscimento della Palestina va inserito in questo obiettivo.

La ferita del 7 ottobre, con la vicenda degli ostaggi ancora aperta, è tuttora sanguinante in Israele. Proprio per questo il riconoscere l’esistenza di un altro popolo che subisce violenza non potrebbe essere virtuoso? E non potrebbe essere un modo di “disarmare” l’ideologia della destra messianica e fondamentalista in Israele?

SEGRE. Il 7 ottobre nella prospettiva israeliana rimane una ferita sanguinante e purulenta. Un dolore profondo, l’incredulità per il fallimento dell’idea, fondamentale per la democrazia israeliana, che “la caccia all’ebreo non è possibile”. Nel mettere a repentaglio questo pezzo di identità, si è rotto un patto sociale. E la ferita prosegue nell’incubo degli ostaggi. Il dolore, quando è vissuto da Israele, è sempre assoluto. Questo non giustifica la tragedia immensa del popolo palestinese. Ma se non capiamo che ogni dolore è assoluto allora non capiamo che accettare in questo momento uno Stato palestinese fondato sul massacro del 7 ottobre - questa è l’interpretazione israeliana – non è semplice: i popoli vivono il loro trauma e in questo trauma definiscono le loro posizioni.
L’autodeterminazionedei palestinesi

La prima preoccupazione di chi si è mobilitato in questi mesi per Gaza è fermare la strage di civili palestinesi e il rilascio degli ostaggi israeliani, vivi e morti. Se il riconoscimento si realizzasse, non sta certo a noi occidentali decidere per i palestinesi come procedere. Ma un aiuto internazionale ad avviare il processo di autodeterminazione non pare indispensabile? Se sì, come attuarlo?

CARIDI. È difficile pensare a come intervenire in futuro se non li aiutiamo oggi a fermare il genocidio. Insisto su questa parola, in base agli ormai numerosi pronunciamenti internazionali. Il problema è come aiutare noi stessi a conviverci fino ai prossimi decenni. L’opinione pubblica lo ha compreso, è tutta contro il genocidio e non comprende i decisori, in uno scollamento mostruoso fra le istituzioni e i “senza potere”.
Le iniziativedegli ambasciatori

L’appello degli ex ambasciatori rivolto al governo italiano e poi anche a quelli europei è stato un “sasso nello stagno”. Ma non possiamo nasconderci che soluzioni immediate non esistono. Ci saranno nuove iniziative dopo l’Assemblea dell’Onu?


FERRARA.
Ci vuole qualcosa di estremamente grave perché 74 ambasciatori scrivano un appello e lancino una sottoscrizione pubblica. Siamo funzionari che hanno privilegiato il servizio alla Repubblica, la fedeltà alla Costituzione e in particolare all’articolo 11: l’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali. Come ex ambasciatori abbiamo un ruolo nel dibattito sulla politica estera, che in questo modo diventa popolare e democratica. Il nostro intento è stato questo, di condividere le nostre idee con i cittadini. Cosa succederà dopo l’Assemblea generale non posso prevederlo, valuteremo anche con i 311 colleghi europei cosa fare. Ma se c’è un giuramento di Ippocrate in medicina, pensando all’impegno di Erasmo da Rotterdam per la pace universale, ecco, noi allora vorremmo essere fedeli al “giuramento di Erasmo”.

(Sul sito di Avvenire è disponibile il podcast con la voce di alcuni dei protagonisti di questo forum. Si può ascoltare qui)
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