Non dobbiamo stancarci di chiedere una Pace vera

Far capire che il bene comune è tale se risulta un bene per tutti è impresa quasi titanica, cui i Papi non hanno mai rinunciato, anche se spesso da soli e inascoltati
December 23, 2025
Non dobbiamo stancarci di chiedere una Pace vera
La scritta Pace formata da candeline accese/ SICILIANI
Il 13 dicembre Leone XIV ha ricevuto in udienza i partecipanti al Giubileo della diplomazia, rivolgendo loro un discorso centrato sull’idea che è la speranza la virtù necessaria per cercare e raggiungere accordi di pace fra i popoli. Le parole finali pronunciate dal Successore di Pietro sono state un appassionato appello alla ricerca della pace: «La pace è il dovere che unisce l’umanità in una comune ricerca di giustizia. La pace è l’intento che dalla notte di Natale accompagna tutta la vita di Cristo, fino alla sua Pasqua di morte e risurrezione. La pace è il bene definitivo ed eterno, che speriamo per tutti». È su queste tre caratteristiche attribuite dal Papa a ogni serio impegno per promuovere la pace ‒ un dovere universale, un aspetto centrale della sequela di Cristo e un bene cui tendere tutti ‒ che vorrei soffermarmi brevemente nelle riflessioni che seguono. Che la pace sia un dovere inseparabile dalla ricerca della giustizia non è una verità scontata: nella storia la volontà della maggior parte dei vincitori è stata quella di imporre la pace ai vinti nel segno di un ordine spesso del tutto iniquo, fatto passare come giustizia riparativa per le ferite e i disastri prodotti dalla guerra. Solo una pace che assicuri il rispetto della dignità di tutti e sia fondata su patti che non umilino nessuno, cercando anzi di salvaguardare i diritti fondamentali di ciascuna parte, anche di quella sconfitta nel conflitto, potrà assicurare un futuro di bene ai popoli. Una soluzione costruita sul principio dell’annientamento degli uni per consentire il benessere vittorioso degli altri non ha mai portato a stabilità, giustizia e pace. Le guerre coloniali o quelle volute dai folli disegni delle ideologie asservite al capo di turno hanno solo prodotto sofferenza, ingiustizia e volontà di riscatto negli sconfitti. Non sarà allora mai abbastanza intenso l’impegno da profondere affinché i patti di pace siano giusti, tali cioè da non sancire lo stravincere degli uni a scapito degli altri, puntando a garantire condizioni eque per il futuro di tutti, pur nella diversità prodotta dalle sorti del conflitto. Un organismo come le Nazioni Unite avrebbe dovuto assolvere a un tale compito: la timidezza con cui si è mosso, il compromesso di volta in volta giustificato o addirittura cercato a favore del più forte, ne hanno fatto una voce debole, inascoltata e non di rado del tutto inefficace
Che l’impegno per la pace sia un aspetto centrale della sequela di Cristo lo ha ricordato alla Chiesa e al mondo San Giovanni XXIII con l’indimenticabile Enciclica Pacem in terris, pubblicata l’11 aprile 1963, cui contribuì non poco anche il Suo segretario, Loris Francesco Capovilla, che sarebbe poi stato mio amato predecessore sulla cattedra episcopale a Chieti. L’Enciclica costituì una sfida forte in un mondo dominato dalla guerra fredda e diviso tra capitalismo e socialismo, precisamente perché richiamava il fondamentale valore della pace e il dovere di servirne la causa con responsabilità e dedizione da parte di tutti. Rivolgendosi agli “uomini di buona volontà”, credenti e non credenti, con lo sguardo ad un mondo senza confini e senza blocchi, l’appello del Papa era pressante: «Cerchino, tutte le nazioni, tutte le comunità politiche, il dialogo, il negoziato». Bisogna cercare ciò che unisce, tralasciando ciò che divide: proprio così la Pacem in terris lanciava a tutti un messaggio di speranza per combattere la paura dell’avvenire ed offriva l’inestimabile patrimonio etico, culturale e spirituale di cui la Chiesa è portatrice a chiunque accettasse di farsi promotore e costruttore di “una nuova, migliore umanità». I successori di Giovanni XXIII sono tutti restati all’altezza di una simile offerta, fino alla voce di Leone XIV che sin dal primo istante del suo ministero petrino ha proposto la ricerca della pace quale priorità del suo servizio alla Chiesa e al mondo.
Che la pace sia un bene cui tendere tutti, infine, è un auspicio alto, esigente, non per questo scontato. Chi intende la politica come ricerca del maggior vantaggio per la propria parte, come sembra sia il caso dei più fra i responsabili delle nazioni, non considererà mai la pace come un bene verso cui muoversi concordemente tutti. Al massimo tenderà a costruire patti di pace con chi risulti affine ai propri calcoli e ai propri interessi. Ricordare che il bene comune da cercare sarà veramente tale se risulterà un bene per tutti è impresa pressoché titanica, cui i Papi non hanno mai rinunciato di attenersi, spesso soli nel farlo e inascoltati. Come promuovere, allora, una visione della pace che possa accomunare le parti convincendole a rinunciare al loro utile esclusivo, per mirare a un ordine di giustizia che sia tale per tutti a partire dai più deboli? Sta qui la sfida di ogni progetto intorno alla pace che voglia tendere a un mondo migliore: quanti fra i grandi della terra lo capiranno? Quanto ancora la voce del Successore di Pietro resterà “clamans in deserto” come quella del Battista?
Monsignor Bruno Forte è Arcivescovo di Chieti-Vasto

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