sabato 27 gennaio 2024
Il filosofo Davide Assael: per gli ebrei è l’ondata di antisemitismo peggiore dal 1967. Ma i segnali di speranza ci sono
Il filosofo Davide Assael

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«Questa ondata di antisemitismo è la peggiore dal 1967». Se un filosofo come Davide Assael, che da anni dentro la comunità ebraica si è fatto promotore del dialogo con le altre religioni e le altre culture giudica con parole così nette l’attuale fase storica, è perché le ferite sono tante e sono ancora aperte. Non basterà una giornata come questa per richiuderle. «Eppure credo che non manchino segnali di speranza, anche nel drammatico scenario attuale» si ostina a dire Assael, che oggi a Bologna presenta Storia culturale degli ebrei (Il Mulino) scritto con Piero Stefani.

Professor Assael, perché questo antisemitismo fa così paura?

Perché è il combinato disposto di due fenomeni. Da un lato c’è il tradizionale antigiudaismo islamico, che non è mai riuscito a sviluppare una propria modernità e a pensare a un rapporto tra le religioni monoteiste in termini egualitari. Dall’altro, questo elemento è andato a fondersi con un sentimento anti-ebraico tipico del mondo occidentale. È qui a mio parere che nasce davvero lo sconforto delle nostre comunità, perché abbiamo visto dilapidarsi in un attimo tutto il percorso fatto a partire dal Concilio Vaticano II, che aveva incluso pienamente l’ebraismo nella storia dell’Occidente.

Ha evocato la fase drammatica della guerra dei sei giorni…

Fu allora che un grande storico come Eli Barnavi dichiarò la fine della moratoria su Auschwitz. Da allora viviamo dentro una nube che racchiude vecchie e nuove forme di intimidazione antigiudaiche e questo ha generato solitudine e preoccupazione.

Dove intravede allora segnali di luce, in questo buio della storia?

Vede, l’identità ebraica non è chiusa in se stessa. La Shoah è stata la più grande delle tragedie, ma bisogna sfatare il pregiudizio diffuso secondo cui gli ebrei reagiscono alla violenza subita in quanto sono un popolo che ha vissuto esclusivamente dei traumi. La nostra peculiarità semmai è la resistenza alle persecuzioni, l’essere sopravvissuti ai processi infiniti di discriminazione, ghettizzazione, finanche a una volontà dichiarata di sterminio. L’ebraismo è da sempre elaborazione di un trauma, sin dalle origini. La nostra ragion d’essere si ritrova proprio al capitolo 12 di Genesi, quando Dio dice ad Abramo, “colui che attraversa”, di andare oltre il confine della sua terra per dirigersi verso il luogo che gli verrà mostrato. Ecco, questo attraversamento è la metafora dell’elaborazione dei traumi dell’origine e il compimento della nostra vocazione.

Il 7 ottobre 2023 è il trauma più recente, che tanti studiosi hanno paragonato ai “pogrom”, una sommossa di popolo contro una minoranza.

Trovo appropriata la definizione di “pogrom”. È vero, il 7 ottobre ha rappresentato un momento di escalation, che ha visto l’ingresso nello scenario mediorientale delle tecniche di sopraffazione e uccisione dell’altro introdotte per la prima volta con l’avanzata del Daesh, un decennio prima. Non va sottovalutata, secondo me, la fase storica in cui tutto questo è avvenuto: si stava cercando di dare stabilità alla regione con la firma degli accordi di Abramo, cementando di fatto un asse israelo-sunnita che sarebbe stato una novità a quelle latitudini. Perché tutto questo all’improvviso è saltato? Perché c’erano due soggetti fondamentali, tra i grandi esclusi: l’Iran e il mondo palestinese. Ora, anche a Gaza stanno affiorando segnali di stanchezza profonda per la guerra, in un contesto in cui Hamas controlla tutto, facendo leva su intimidazioni di tipo terroristico e mafioso. È per questo che, proprio in questo momento storico, trovo che sia sbagliato mostrarsi pessimisti: chi ha interesse e convenienza a estendere il conflitto, nel tempo e nello spazio, ha ormai bruciato i ponti alle sue spalle. Per questo, è obbligatorio sperare nel dialogo e in una tregua che possa portare alla pace.

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