giovedì 9 aprile 2009
Il dottor Luca Antonini ha perso la moglie e il figlio Ieri era già al suo posto nell’ospedale da campo «Altrimenti impazzirei». Al pronto soccorso c’è Fadba, operaio albanese: «Un metro più avanti e sarei stato sepolto». Giorgia, prima nata dopo il sisma.
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Ci sono luoghi in cui la vita e la morte si sfiorano o si intrec­ciano. Ci sono momenti che imprimono un’accelerata improv­visa al destino delle persone. Uno di questi luoghi è l’ospedale San Sal­vatore qui a L’Aquila, il momento è stato alle 3 e 32 di domenica notte. Quando Fadba, operaio albanese, ha visto la morte in faccia ma l’ha schivata. Quando nonna Landa, paralizzata, è uscita indenne da un crollo ma ha rischiato di morire disidratata do­po due notti in automobile. Quan­do il dottor Antonini, cardiologo di questo ospedale duramente colpi­to dal sisma, ha perso la moglie e il figlio e ora torna al lavoro per non impazzire di dolore. Luca Antonini si aggira tra le tende dell’ospedale da campo allestito nei parcheggi del San Salvatore, al mo­mento del tutto inagibile. Sta cer­cando di uscire dal pozzo di dolore in cui è stato scaraventato domeni­ca notte. «È il primo giorno, tornerò al lavoro subito altrimenti impazzi­sco, il dolore è troppo», dice. Lo fer­mano continuamente per salutarlo, abbracciarlo. È un uomo distinto di 46 anni, che fa sforzi incredibili per non crollare. Seduto nella tenda che fa da mensa, riordina i ricordi della notte che ha cambiato la sua vita: «Sabato sera c’era stata una prima scossa alle 11 e 45 – ci dice – e ave­vo telefonato a mia moglie Giulia­na, da cui sono separato, perché a­veva deciso di andare a dormire con nostro figlio Stefano, 9 anni, a casa dei suoi genitori. Io le avevo detto che secondo me era meglio se re­stavano a casa nostra: la fece mio nonno, che era un bravo costrutto- re. Mi sarei sentito più sicuro. Non lo so, mi ha detto, sono soli, forse vado da loro». Quando la terra tre­ma, il dottor Antonini si precipita, da casa sua in via Verdi, a via Forte­braccio, dove era la loro casa di spo­si. La casa solida fatta dal nonno è lì in piedi, ma vuota. «Allora sono corso a via D’Annun­zio, dai suoceri, verso Porta Napoli. Una palazzina di cemento armato degli anni ’60. Non c’era più, un am­masso di macerie». Da sotto si sen­tono urla, lamenti. Non quelli della moglie e del figlio. I soccorsi arriva­no dopo alcune ore: «Hanno co­minciato a scavare alle 7 e 30. Han­no tirato fuori due ragazze vive, poi alle 14 mia suocera. Giuliana e Ste­fano no. Sono morti sul colpo». Luca Antonini guarda in alto e de­glutisce. «Non sono un esperto di costruzioni – riprende – ma io di ce­mento ne ho visto ben poco lì. E i tondini di ferro erano lisci, non zi­grinati. Lucrare sul cemento arma­to signfica mettere a repentaglio la vita delle persone. Come è incon­cepibile che sia inagibile un ospe­dale costruito 20 anni fa». Il padre e il marito si ferma qui. E la­scia la parola al dottor Antonini, car­diologo: «Nonostante tutto sono lu­cido. E le dico che questo ospedale da campo non è gestibile. A parte il pronto soccorso, non serve a nien­te. L’ha vista la tac mobile la fuori? Se mi conferma che un paziente ha un’emorragia cerebrale, è inutile, tanto qui non posso fargli niente e devo trasferirlo altrove. Qui l’ospe­dale non riprenderà a funzionare per molto tempo. L’Aquila non può farne a meno. Con 10 milioni di eu­ro si possono comprare dieci unità mobili, sale chirurgiche autotra­sportate. Così potremo lavorare. Non ci servono promesse e dichia­razioni, ma strumenti. Qui i politi­ci lascino le decisioni ai tecnici, a chi lavora in sanità». Fadba, l'operaio albanese: «Un metro e sarei stato sepolto». Dalla tenda del pronto soccorso in­tanto esce in carrozzella Fadba, il piede destro fasciato. È arrivato in I­talia dall’Albania per migliorare la sua vita ma c’è mancato poco che la perdesse. Biondo, magro, 21 anni, viveva a Poggio Roio. Ora a ripensare a come è andata gli viene da sorri­dere: «Non so come mi sono fatto male. Devo essere stato quando so­no saltato giù dal letto, su una pie­tra o un vetro. Stavo per entrare in soggiorno e da lì uscire, quando è crollato tutto. Se fossi stato un me­tro più avanti sarei morto. Grazie a Dio sono qui». Landa, viva per caso. Anche la signora Landa Cirilli è vi­va per caso. Ha l’ossigeno e poco fia­to per parlare, con i suoi 87 anni e il lato sinistro del corpo pa­ralizzato per un ictus. La notte del sisma casa sua, a Roio Colle, resiste per miracolo alla spallata mentre attorno crolla tut­to. Veneta, la sua badan­te bulgara, quando capisce che sono salvi scappa a chia­mare aiuto. I parenti salgono sulle macerie e la portano fuori su di un lenzuolo. Le scosse di assestamen­to poco dopo faranno crollare tut­to. Nonna Landa passa due notti in macchina, assistita per quanto pos­sibile dai nipoti. Ma quando il me­dico la visita, decide per il ricovero: «Si stava disidratando, poi lì non po­tevamo lavarla», racconta la nipote Maddalena, di­strutta dalla ten­sione. Qui all’o­spedale da campo del San Salvatore non sono in gra­do di curarla. C’è posto all’ospedale di Tocco Da Ca­sauria, tra Sulmo­na e Chieti. L’e­liambulanza è pronta: «Tran­quilla zia, che il viaggio è breve, noi arriviamo su­bito ». Landa alza una mano e prova a sorridere.
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