martedì 28 novembre 2023
Parla la mamma di Youssef, ucciso dalla polizia inglese dopo un attentato jihadista a Londra. Dal fondamentalismo religioso all’impegno civile in teatro: storia di un cambiamento possibile
Valeria Collina, a destra nella foto, durante una delle rappresentazioni teatrali messe in scena a Bologna, frutto del percorso di deradicalizzazione fatto in questi anni

Valeria Collina, a destra nella foto, durante una delle rappresentazioni teatrali messe in scena a Bologna, frutto del percorso di deradicalizzazione fatto in questi anni - Collaboratori

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«No, non c’è nulla che può giustificare azioni disumane come quella di Hamas o come gli attentati di un mese fa in Francia e a Bruxelles. Ogni volta che qualcuno uccide in nome di Dio, si riapre la mia ferita». Una ferita che ha squarciato il cuore di Valeria Collina quando, il 3 giugno 2017, suo figlio Youssef, 22 anni, partecipò al commando jihadista che sul London Bridge ammazzò a coltellate otto persone, venendo poi ucciso dalla polizia britannica. Le immagini che in questi giorni arrivano da Gaza e dalla Cisgiordania rendono ancora più acuto il suo dolore.

«Disumano pensare di morire per Dio uccidendo altri uomini, come fanno i terroristi islamisti, disumano uccidere civili per tutelare la propria sicurezza, come fanno i soldati israeliani. È l’abisso di male in cui è precipitata una situazione di cui colpevolmente tutti ci siamo dimenticati per troppo tempo. La strada per la pace è una faticosa salita, ma bisogna percorrerla ognuno mettendoci del suo, nel luogo dove si vive. E la pace non arriverà se non ci sarà pacificazione. Senza il riconoscimento dell’altro e delle sue ragioni, non si va da nessuna parte».

Valeria Collina sta mettendoci del suo: da anni viene invitata in scuole, università, parrocchie per raccontare la sua odissea, partecipa a iniziative nelle carceri per prevenire la radicalizzazione dei giovani musulmani, «perché non accada quello che è accaduto al mio Youssef che aveva trasformato la fede religiosa in una ideologia che giustifica l’uccisione di altre persone. Nella sua mentre l’islam si era “ossificato”, non faceva più i conti con la ragione. Avevamo avuto molte discussioni sulla sua interpretazione rigida e letteralista dei testi sacri, ma mai avrei immaginato che sarebbe arrivato a quel gesto estremo».

È una storia tormentata e sempre alla ricerca di sé, quella di Valeria Collina. Padre partigiano e socialista, educata alla fede cristiana, all’università di Bologna partecipa alla contestazione e ai movimenti femministi, si impegna nel “teatro povero” di Grotowski, incontra un giovane proveniente dal Marocco che sposa e con cui va ad abitare a Fes per vent’anni, dove abbraccia la religione islamica con il nome di Khadija. Dopo la separazione dal marito torna in Italia insieme ai due figli, poi la partenza di Youssef per Londra, fino alla tragica mattina in cui gli agenti della Digos le comunicano la notizia che sconvolge la sua esistenza.

In questi anni ha ripreso la vecchia passione per il teatro recitando e scrivendo testi, e nel docufilm After the Bridge (per la regia di Davide Rizzo e Marzia Toscani, da pochi giorni disponibile su Raiplay ) racconta il suo cammino travagliato. Frequenta il corso di laurea in Antropologia, continua i suoi studi sulle voci del femminismo islamico («poco ascoltate ma molto potenti»), aiuta i bambini nel doposcuola parrocchiale di Valsamoggia, il paesino sulle colline di Bologna dove abita da quando è tornata dal Marocco.

Il 2 dicembre è stata invitata in Vaticano - insieme a Marta Cartabia e al gesuita Mario Picech, aiuto cappellano nel carcere milanese di San Vittore - a portare la sua testimonianza durante il simposio “Dalla giustizia alla fraternità”, promosso dalla Fondazione Fratelli Tutti nell’ambito dei Cammini Giubilari Sinodali.

Dopo la morte di Youssef ha vissuto anni di purificazione alla scoperta delle sua identità profonda in una ricerca inquieta e inesausta, intessuta di nuove amicizie e segnata dalla volontà di «considerare le persone per il loro valore infinito di creature e non per il ruolo che svolgono o per lo schieramento al quale appartengono».

È convinta che «oggi più che mai, nei tempi bui che stiamo vivendo, è necessario un grande lavoro educativo partendo dalle scuole e dai luoghi di aggregazione giovanile per arginare e prevenire la deriva nichilista di cui tanti ragazzi sono vittime, e di cui la radicalizzazione jihadista è solo una faccia. A fronte di quello che accade nel mondo giovanile, la moltiplicazione di regole e divieti, l’aumento delle misure di sorveglianza e di provvedimenti punitivi non portano lontano. Serve una rivoluzione dello sguardo, qualcosa che arrivi al cuore dei ragazzi, l’incontro con testimoni credibili che abbiano un’attrattiva umana capace di suscitare il desiderio di bene che - ne sono convinta - abita in ogni persona».

Una rivoluzione dello sguardo: come si fa? Collina ha conosciuto il peso della violenza, e poi il rancore, perfino l’odio verso chi l’aveva commessa. «Ma il risentimento è una gabbia dentro la quale rischi di dibatterti senza poterne uscire, consumandoti nell’ingorgo doloroso delle tue passioni tristi e nell’attesa della vendetta o di una giustizia costruita secondo la tua misura». Come può il risentimento lasciare spazio al perdono, una parola che qualcuno ritiene oggi persino impronunciabile?

«C’è un piccolo perdono, frutto di un atteggiamento utilitarista, di chi riesce a dimenticare il male che l’altro gli ha fatto ma contemporaneamente dimentica l’altro e pensa alla propria piccola tranquillità. In fondo, è un atto di sopravvivenza per non soccombere al dolore. E poi c’è il grande perdono, in cui il male compiuto dall’altro non è l’ultima parola sul mio rapporto con lui. È frutto di uno sguardo d’amore: continuo a guardare l’altro e desidero per lui lo stesso bene che desidero per me.

Un amico sacerdote mi ha regalato un quadretto con il testamento spirituale di Christian De Chergé, il religioso trappista rapito e poi ammazzato insieme a sette confratelli dell’abbazia di Tibhirine, in Algeria, nel quale, due anni prima della sua fine, immagina di poter perdonare “con tutto il cuore” chi lo avesse ucciso, e chiede di poterlo ritrovare in Paradiso, concludendo con queste parole: “Anche te, amico dell’ultimo minuto che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo ‘grazie’, e questo ‘a-Dio’ nel cui volto ti contemplo. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due”».



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