martedì 10 marzo 2020
Il cappellano di Rebibbia padre Lucio Boldrin racconta la rivolta di ieri nel carcere romano. «La paura per il contagio si è mescolata alla protesta per la sospensione delle visite dei familiari»
Un momento della protesta a San Vittore

Un momento della protesta a San Vittore - Ansa/Andrea Fasani

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La voce è tesa ma ferma, oltre al comprensibile turbamento si coglie il timore di veder vanificato il «gran lavoro fatto finora da tutti per creare un certo equilibrio qua dentro, in condizioni difficili». Padre Lucio Boldrin è da qualche mese cappellano del carcere romano di Rebibbia-Nuovo complesso, dove ieri è scoppiata una delle tante rivolte di detenuti. Il reparto che segue è il più "caldo", il G11, quello da dove è partita la ribellione. Quando parliamo, si vede ancora del fumo grigio e denso sul tetto dell'edificio. Lui è stato appena fatto uscire per motivi di sicurezza. Ma fino a un momento prima è stato lì, a mediare, «a cercare
di farli ragionare».

Qual è stata la molla che ha fatto scattare la sollevazione?
Come negli altri istituti, la protesta è legata alla limitazione dei colloqui con i familiari, conseguente all'emergenza da Coronavirus. Ma è un disagio mescolato anche alla paura del contagio.

Due elementi a prima vista contraddittori.

Ho notato che i detenuti più anziani vogliono maggiore attenzione alla prevenzione, magari delle certificazioni per chi entra in carcere, mentre i giovani pensano meno a questo aspetto e chiedono di mantenere intatto il regime delle visite.

Un contrasto analogo a quello che si osserva "fuori".
Le posso assicurare che il carcere è lo specchio della società esterna.
Solo che, in carcere, l'allarme provocato dal Coronavirus si va a sommare ad altre cause di malcontento e di sofferenza.
Proprio così, perdura soprattutto il problema del sovraffollamento. Tra l'altro, per l'emergenza sanitaria, sono state sospese le uscite diurne per semilibertà e per lavoro esterno. In più, da ieri è bloccato anche l'ingresso per i volontari, che sono fondamentali per le persone recluse. Sono loro che tengono i contatti con le famiglie, talvolta ritirano anche la pensione dei detenuti che ne hanno una.
Come è cominciata la rivolta?
Una trentina di persone, in un reparto da 500, hanno preso d'assalto gli uffici e la biblioteca, i danni sono ingenti. Non ho notizie dell'infermeria, che è uno dei primi obiettivi quando si creano queste situazioni. Anche perché ci sono persone tossicodipendenti che approfittano del caos per andare a cercare lì qualcosa... Poi si sono sollevati altri due reparti, sono state ore di grande paura e tensione. Per fortuna alla fine è prevalso il buon senso e prima delle 16 erano tutti rientrati nelle celle.
E adesso?
Adesso resta l'amarezza per quello che è successo, speriamo di non aver bruciato in poche ore il grande e faticoso lavoro fatto finora per cercare di tenere in equilibrio una comunità dove si vivono enormi problemi. E quando parlo di comunità non mi riferisco soltanto ai detenuti, ma anche agli agenti di Polizia penitenziaria, al personale, al direttore. Da fuori, forse, è difficile capire quanto sia difficile il lavoro di queste persone e posso assicurare che lo svolgono con grande professionalità e con impegno.
Molte associazioni e una parte della politica hanno rilanciato il tema di un provvedimento di clemenza, amnistia o indulto, per decongestionare un sistema carcerario che, anche prima del Coronavirus, era potenzialmente esplosivo. Qual è il suo pensiero?
Non entro in argomentazioni che riguardano la politica, non è mio compito. Dico soltanto che la situazione, qui, è seria da prima dell'emergenza e purtroppo continuerà a esserlo anche dopo. Perciò, non so come e sotto quale forma, servirebbe un provvedimento per alleggerire le presenze, migliorare la qualità della permanenza e il lavoro degli agenti.



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