mercoledì 3 febbraio 2010
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Ragioni socioeconomiche e ragioni scientifiche si oppongono alla diffusione degli Ogm nei campi della Penisola. Alle prime dà voce Stefano Masini, responsabile Ambiente e territorio di Coldiretti; alle seconde Marcello Buiatti, docente di Genetica all’Università di Firenze. «Le tendenze all’acquisto dei consumatori – sottolinea Stefano Masini – vanno verso prodotti del tutto sicuri e che facciano dell’ecocompatibilità la loro cifra. E dal nostro sondaggio effettuato da Swg risulta che dal 2003 ad oggi la quota di italiani che esclude di apprezzare gli Ogm è cresciuta dal 52 al 63%». Secondo Coldiretti esistono anche limitazioni oggettive all’utilizzo proficuo delle colture geneticamente modificate: «Negli Stati Uniti ci sono 63 milioni di ettari di colture transgeniche, in Italia solo un milione di ettari è coltivato a mais, con appezzamenti di superficie media di 6,5 ettari: è evidente che le dimensioni ridotte e l’esercizio polifunzionale dei nostri campi rendono più facile la contaminazione. Inoltre è sicuro un maggior costo delle sementi Ogm, ma non altrettanto la maggior produzione». «Al massimo – concede Masini – potrebbe esserci spazio per sperimentazioni che fughino i dubbi scientifici ancora esistenti. Ma forse i soldi potrebbero essere usati per sperimentazioni agroalimentari più utili». All’inutilità scientifica dei prodotti geneticamente modificati finora realizzati fa riferimento anche Marcello Buiatti: «La tecnologia usata è fallimentare: dal ’96 questo tipo di ingegneria genetica ha funzionato solo su quattro piante (mais, soia, cotone e colza) e su due geni (resistenza agli erbicidi e resistenza ai parassiti). Nessun altro prodotto è arrivato al mercato, perché l’impostazione fondamentale, che si basa su una visione meccanica della vita, si è rivelata errata». In particolare, osserva Buiatti, «i pezzi di Dna inseriti nelle piante non sono controllabili, non si sa in anticipo quali interazioni possono svilupparsi tra il gene nuovo e il metabolismo della pianta. Nel nostro laboratorio abbiamo verificato che geni del sistema ormonale del topo hanno provocato reazioni imprevedibili nella pianta». «In più – aggiunge Buiatti – c’è il concreto rischio che le piante resistenti agli erbicidi vengano irrorate anche in prossimità del raccolto e che i prodotti che mangiamo restino contaminati. Oltre ai danni, provati, alla microflora del terreno». Altri rischi stanno emergendo: «Abbiamo realizzato e pubblicato studi che dimostrano come nel mais Mon810 si formano proteine sconosciute, non descritte nel brevetto. Ma l’Efsa usa metodi di analisi obsoleti e si affida a laboratori non indipendenti dalle aziende produttrici. Di questo andrò a parlare all’Europarlamento a marzo a nome dell’associazione di scienziati europei per la responsabilità sociale e ambientale (Ensser)».
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