giovedì 12 dicembre 2019
Nel libro di Francesco Falcone, commercialista e revisore contabile, si ripercorrono le tappe principali sull'acciaieria
Indagini, sequestri e 13 decreti. Decenni di scontri sulla pelle di Taranto
COMMENTA E CONDIVIDI

Se nel 2002, quando il Tribunale di Taranto decise per la confisca dei parchi minerari dell’allora Ilva della famiglia Riva, la Cassazione non avesse interpretato erroneamente una legge della Regione Puglia sui fumi convogliati, applicandola alle polveri, che emissioni non erano, oggi staremmo parlando di un’altra storia.

È uno degli aspetti che emerge nel volume 'Il sequestro nella vicenda giudiziaria Ilva Spa', edito da Stamen. Un libro che ricostruisce la vicenda Ilva, dall’immane complessità giuridica, in 90 pagine tecniche ma fruibili anche per i non addetti ai lavori. «Questa storia inizia nel 1982, con il primo decreto emesso dal pretore Franco Sebastio in danno dell’allora Italsider – spiega Francesco Falcone, commercialista, revisore contabile ed autore del libro – ma il punto cruciale è nel 2002, quando il tribunale di Taranto decreta la confisca del parco minerale di Taranto, a causa dello spolverio del minerale di ferro in danno agli abitanti del quartiere Tamburi, condannando in primo grado Emilio Riva, proprietario, Luigi Capogrosso, direttore della fabbrica ed altri due dirigenti del parco minerali per reati di getto pericoloso di cose. In primo grado vengono confiscati 550mila metri quadrati, una cosa gigantesca, e la vicenda arriva fino in Cassazione, che conferma tutto l’impianto accusatorio ma libera la struttura dei parchi minerali in favore dell’Ilva, per un’interpretazione erronea di un’autorizzazione che la Regione Puglia aveva intanto concesso all’Ilva, cioè il via libera ad emettere in atmosfera fumi convogliati, che nulla hanno a che vedere con lo spolverio di polveri che provengono dai parchi di minerale».

È il primo caso nazionale che mette al centro Ilva. Da lì comincia a muoversi il fronte ambientalista. Partono le indagini sulla diossina nei capi di bestiame e nel latte materno. Un passaggio chiave, quello dalla società civile alle aule di giustizia. «Nel 2011, anche a seguito delle indagini del Fondo antidiossina e di Peacelink, (che mostrano gli inquinanti, ndr), il pm chiede al gip di poter essere autorizzato ad acquisire delle prove – racconta Falcone – facendo due famose perizie, una epidemiologica ed una chimica: lo studio Forastiere, che dimostra gli effetti dell’inquinamento dell’Ilva sulla popolazione tarantina e quella chimica, che connette all’Ilva i materiali ritrovati all’interno dell’area di Taranto, dimostrando scientificamente che solamente da lì potevano venire quei tipi di inquinanti». Tutto questo però non basta a fermare la fabbrica.

«Il 25 luglio del 2012 – prosegue Falcone – con un gran coraggio, la magistratura tarantina sequestra gli impianti ed il gip Patrizia Todisco nomina il presidente dell’Ordine dei dottori commercialisti come amministratore unico. Il commercialista si sarebbe dovuto occupare della chiusura degli impianti e delle ricollocazione del personale altrove ma il 7 agosto, il Riesame, ribalta tutta la situazione e inserisce nuovamente nella gestione della struttura il presidente del consiglio di amministrazione di Ilva, ai tempi Bruno Ferrante. Così inizia un rimpallo tra azioni della magistratura e ribattute del colosso siderurgico ». Successivamente, con i 13 decreti legge ad hoc varati negli anni, diventa evidente un altro scontro singolare, tra poteri dello Stato: quello giudiziario e quello legislativo.

«Non è possibile impedire alla Procura di esercitare la sua attività però il governo ne esercita un’altra parallela per mettere i bastoni tra le ruote. Ed è – afferma Falcone – la prima volta che avviene nel sistema giudiziario italiano». In questi giorni poi si riparla dell’Altoforno 2, per cui i commissari straordinari Ilva avevano richiesto una proroga di un anno ai termini di prescrizione per l’adeguamento alle norme sulla sicurezza, che scadono domani. Il giudice del processo sul decesso di Alessandro Morricella ha detto no: va spento senza se e senza ma.

«Anche qui una storia a sé. Quell’altoforno - sottolinea Falcone -non viene chiuso nel settembre 2012, perché fortemente inquinante ma sequestrato con facoltà d’uso nel 2015, dopo la morte di un operaio». Interessante, nel testo è anche il ruolo della Procura di Milano, che scopre il 'tesoro nascosto' dei Riva. «Il Procuratore di Taranto Sebastio va in Commissione Giustizia alla Camera e dice che ci vogliono almeno 8 miliardi di euro per rimettere a posto gli impianti e questo fa tremare a tutti i polsi. Così la magistratura milanese va alla ricerca del possibile,per sequestrare e garantire il revamping (rifacimento, ndr) della fabbrica di Taranto. Lo fa Milano perché la holding del gruppo Riva, la Riva Fire, ha sede a Milano. Indagando scoprono che 1 miliardo e 3 milioni di euro sono depositati in diversi conto correnti, con società castello, nell’isola di Jersey. Messi lì per fruire delle agevolazioni fiscali del rimpatrio di capitale. Ora questi soldi sono sotto sequestro».

A quel punto la Procura di Taranto prova con la legge 231 del 2001, che dice che «se io sono amministratore di una società e commetto reato – specifica Falcone – può essere chiamata in causa anche la società che io amministro, perché i vantaggi del mio reato li ha avuti proprio quella società. Così – chiarisce Falcone – la magistratura svela all’Italia l’esistenza di una struttura ombra dei Riva, fiduciari che gestiscono tutto l’impianto, senza che nessuno li abbia mai visti o inseriti in organico. Arriverà in seguito la Cassazione a dire che anche se c’è un nesso di collegamento tra il reato commesso e la struttura Ilva spa, questa non può essere comunque chiamata in causa per risarcire i cittadini di Taranto, perché non si riesce a dimostrare il collegamento diretto tra il reato ambientale a cui sono chiamati i Riva ed i vantaggi che ne avrebbe tratto l’Ilva». Così a pagare continua ad essere un’intera città.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: