venerdì 17 maggio 2019
I magistrati hanno acquisito tutti i documenti ministeriali sulla nave Alan Kurdi, a cui fu impedito lo sbarco di famiglie con bambini. E dopo il soccorso la Sea Watch chiede ancora un «porto sicuro»
Migranti sulla Alan Kurdi il 7 aprile nell'attesa dello sbarco a Malta (Foto Twitter/Sea Eye)

Migranti sulla Alan Kurdi il 7 aprile nell'attesa dello sbarco a Malta (Foto Twitter/Sea Eye)

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Un nuovo filone d’inchiesta ha nel mirino il Viminale e le direttive contro chi salva i migranti. Stavolta si tratta della Alan Kurdi. Il 3 aprile aveva soccorso 64 persone, ma il ministero dell’Interno aveva indicato la nave umanitaria come «non inoffensiva».

I magistrati di Agrigento guidati dal procuratore Luigi Patronaggio, che per primo aveva indagato Matteo Salvini poi «graziato» dal Parlamento, ha acquisito tutti gli atti sul divieto all’Ong Sea Eye. La procura siciliana, competente per il porto di Lampedusa, sta sviluppando indagini che si incrociano con altre anomalie riscontrate nel caso della Mare Jonio, che il 19 marzo ricevette la richiesta di fermare i motori senza che mai di questi ordini sia stata trovata traccia in atti ufficiali. Oggi verranno interrogati a Lampedusa il comandante e il capomissione di Mediterranea, indagati dopo il salvataggio e lo sbarco della settimana scorsa, i quali intendono fornire nuovi elementi su presunte responsabilità delle autorità ministeriali.

Il nuovo fronte giudiziario si è aperto il 4 aprile, quando un eventuale transito «della imbarcazione Alan Kurdi» nell’area marittima «di competenza italiana in violazione delle disposizioni in materia di immigrazione», secondo una direttiva appena emanata dal Ministero dell’Interno, sarebbe stata ritenuta «necessariamente quale passaggio non inoffensivo». Toni e decisioni di solito riservati a navi «nemiche», non a chi trasporta naufraghi. Ora si apprende che non solo la direttiva, ma tutti gli atti ministeriali relativi alla Sea Eye (i migranti sbarcarono poi a Malta) si trovano in un fascicolo d’inchiesta. Documenti i cui contenuti non sono noti.

Dopo il salvataggio venne inizialmente assicurata a Sea Eye la possibilità di far sbarcare in Italia le persone bisognose di cure e le famiglie con bambini. Dopo qualche ora il dietrofront: sarebbero potute scendere a Lampedusa solo le donne con i figli, lasciando a bordo i papà. Le famiglie, però, non accettarono di venire separate. A confermare l’esistenza dell’inchiesta è un documento del Viminale che davanti alla richiesta di accesso agli atti, ha risposto spiegando di non poter fornire alcun chiarimento.

«Si rappresenta che gli atti riguardanti l’evento in questione – si legge nella nota di risposta firmata dal direttore centrale della Direzione per l’Immigrazione – risultano essere oggetto di indagine da parte della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Agrigento». In ogni caso, l’intero incartamento difficilmente sarebbe stato consegnato all’avvocato Alessandra Ballerini, che ne aveva chiesto copia per conto di Adif, l’Associazione diritti e confini, poiché sottoposti alla “riservatezza” di Stato, secondo le norme che consentono la segretezza dei provvedimenti governativi quando è minacciata la sicurezza nazionale.

Intanto la nave di Sea Watch continua a chiedere un porto sicuro in Europa e su Twitter sostiene che «la cosiddetta Guardia costiera libica si è dichiarata incompetente» per i 65 migranti soccorsi e «ha detto all'equipaggio di navigare verso Nord». Adesso, conclude Sea Watch, «attendiamo che l’Europa ci assegni un porto sicuro».

In una dichiarazione il portavoce della Marina Libia attacca l’Ong tedesca, come del resto Matteo Salvini che parla ancora una volta di porti chiusi. A questo proposito l’allargamento dell’indagine di Agrigento non è la sola novità. Il 10 aprile, una settimana dopo la direttiva contro Sea Eye, per oltre quindici ore un gruppo di migranti rimase alla deriva davanti alle coste libiche, ma in acque internazionali, senza che nessuna autorità europea intervenisse. AlarmPhone aveva allertato tutte le centrali di soccorso, ma i libici arrivarono quando almeno 8 persone risultavano già disperse. Anche su questo episodio il ministero delle Infrastrutture, competente sulla Guardia costiera e la centrale di soccorso con sede a Roma, risponde a una richiesta di accesso, comunicando «che non risultano agli atti della centrale operativa provvedimenti pervenuti/emanati in merito al divieto di approdo nei porti italiani e/o di rifiuto di soccorso». Una partita giocata tra silenzi e scaricabarile su cui ora la procura di Agrigento vorrebbe fare chiarezza.

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