domenica 13 marzo 2016
In un documentario la tragedia dei cristiani d'Iraq
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A quasi due anni dalla grande fuga, per i cristiani iracheni della piana di Ninive nulla è cambiato. O forse sì, in peggio. Perché anche la speranza di tornare, ormai, sta morendo. È l’amara condizione dei profughi fuggiti a migliaia, in sole due ore, per scampare all’avanzata dei tagliagole del Daesh, i terroristi del cosiddetto Stato islamico. Una realtà durissima, raccontata nel documentario Nineveh christians in exile di Elisabetta Valgiusti, che sarà proiettato domani, lunedì 14 marzo alla Camera, nella sala del Mappamondo, nel corso del convegno «La sfida culturale del Daesh». Tra gli interventi in programma, quelli della vicepresidente della Camera Marina Sereni e dell’onorevole Pierluigi Castagnetti. Il documentario, trasmesso l’anno scorso dal canale televisivo americano Eternal Word Television Network, raccoglie le testimonianze dei cristiani e delle altre minoranze, Yazidi e Shabak, assieme a quelle dei patriarchi dei Caldei Luis Sako, dei sirocattolici Joseph III Younnan, dei siro-ortodossi Yousif Al Banna e del vescovo siro-cattolico di Mosul Yohanna Petros Mouches. Mosul, capoluogo del governatorato di Ninive è stata occupata a giugno del 2014. Due mesi dopo, il 7 agosto, le bande del Califfato hanno attaccato i villaggi cristiani della piana di Ninive operando una 'pulizia etnica' di circa 150mila cristiani e distruggendo e profanando chiese e antichi monasteri. In quelli che erano i più antichi insediamenti cristiani della Mesopotamia, non è rimasto nessuno. Nelle interviste i protagonisti raccontano la fuga, i problemi quotidiani, la paura del futuro. «Da allora la loro condizione è peggiorata – racconta Elisabetta Valgiusti – perché si sta cronicizzando. L’unico miglioramento è che non stanno più nelle tendopoli: ora abitano in container o spesso in appartamenti che però devono dividere anche tre famiglie, una per stanza. Perché il mercato degli affitti è lievitato, a Erbil e Ankawa servono tra gli 800 e i 1.500 dollari per una casa. E non ci si rende conto – sottolinea l’autrice – che si tratta di borghesia che aveva realizzato scuole cristiane, ospedali, case editrici, società di servizi, imprese agricole». A rendere più caotica la fuga, spiega Valgiusti, «sono state le assicurazioni iniziali delle milizie curde, che avevano promesso protezione, ma a cinque giorni dal loro rientro dopo un primo allontanamento, si sono ritirate costringendo i cristiani a scappare precipitosamente, senza poter portare via né risparmi né documenti». I meno sfortunati tra loro sono gli impiegati dell’amministrazione irachena «che continuano a ricevere lo stipendio, ma con ritardi di mesi e spesso decurtato». Anche tra enormi difficoltà, comunque, i profughi cristiani non sono rimasti con le mani in mano: «Sono riusciti a organizzare le scuole per i ragazzi nella loro lingua madre, l’arabo, perché nel Kurdistan iracheno in cui sono sfollati si parla solo curdo. Ma nel complesso è una situazione di stallo e di degrado. Potrebbero uscirne solo se, finalmente, i Paesi occidentali organizzassero corridoi umanitari».
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