venerdì 13 agosto 2021
Il professor Ciccozzi ha studiato la genealogia del contagio, da Wuhan alle mutazioni. «All’inizio eravamo tutti disarmati. Oggi sappiamo che per fermarlo serve la distanza»
Massimo Ciccozzi

Massimo Ciccozzi - .

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Massimo, ma proprio oggi dovevi comprarti il barboncino? Dovevamo parlare di Covid, eppure, anche uno che dà del tu al virus come Massimo Ciccozzi esce da questi due anni con una gran voglia normalità. Di umanità. Di tenerezza, persino. Altro che convegni e nottate a spulciare il Gisaid, che è il database degli scienziati. L’attenzione del 'prof' è tutta per questo barboncino Toy, che sembra un peluche con l’anima. Color albicocca, solo perché giallo rosso non glielo facevano. Col figlio Valerio ha deciso di chiamarlo Paco. Scelta strategica, diretta a depistare le donne di famiglia, contrarie a quella smodata passione dei due 'ragazzi' per la Roma der pupone. Cioè Totti Francesco, per l’appunto spagnoleggiato in Paco.

A due anni dallo tsunami sanitario, se chiedi all’epidemiologo dell’Università Campus biomedico – ospite fisso delle tv perché sa spiegare il coronavirus alla casalinga dell’Alberone – qual è il ricordo della pandemia che si porterà nel cuore, non ti cita la scoperta dell’origine del Sars-CoV-2 o quella della mutazione che lo ha reso più contagioso, uscite per l’appunto dal Campus. No. «Il momento che non scorderò mai – ci risponde – è quando abbiamo creato il primo protocollo di sicurezza alla Roma insieme al medico Massimo Manara, garantendo alla prima squadra di giocare in sicurezza».


«Il Sars-CoV-2 cerca di superare le barriere selettive che gli frapponiamo: non credo dunque che diverrà più contagioso ma che tenterà di selezionare un ceppo resistente alla profilassi. Lo scontro si sposta su quel fronte»

Pajata a parte, Massimo Ciccozzi è il capofila di complicatissimi studi filogenetici che vengono citati in tutto il mondo. Per chi non lo sapesse, le sue ricerche hanno condotto a scoprire, in sequenza: che il virus non è nato in laboratorio ma è figlio di un salto di specie dal pipistrello all’uomo; che già nel 2019 a Wuhan il coronavirus ha iniziato a mutare; che una delle mutazioni della proteina Spike, identificata con la sigla d614g, gli ha permesso – una volta diffusosi in Europa – di diventare più contagioso; che alcune mutazioni sono avvenute con una delezione, cioè una amputazione del virus, e risultano pertanto irreversibili; che il «nemico» attua una «evoluzione convergente» che lo porta ad adattarsi all’uomo, superandone le difese non per ucciderlo, ma per parassitarlo meglio, il che lo porterà a diventare endemico, come l’influenza stagionale. Ma anche che il coronavirus non ama le alte temperature, che la seconda ondata italiana derivava da serbatoi nascosti in agosto che sono esplosi in settembre, con la riapertura delle scuole e degli uffici. E che la variante Delta è dalle 6 alle 8 volte più contagiosa del ceppo di Wuhan...

«L’epidemiologia tradizionale osserva l’epidemia dal punto di vista dell’uomo – ci spiega – mentre la filogenesi, utilizzando gli stessi dati, la osserva dal punto di vista del virus. Gli studi sono analoghi – caso/ controllo, prevalenza, ecc. – ma noi non analizziamo la diffusione in una popolazione, bensì andiamo a cercare nel genoma del parassita le differenze tra un campione e l’altro, tra una sequenza genetica e l’altra. Ovviamente, le tracce più importanti per la filogenesi sono proprio le mutazioni delle sequenze, cioè il riscontro di aminoacidi che cambiano o che mancano; grazie alle conoscenze che abbiamo affinato negli ultimi decenni siamo in grado di capire quando una mutazione è avvenuta, con quali conseguenze sul piano della trasmissione e della patogenicità. Ricostruiamo in questo modo la genealogia del virus, i cluster che crea, i suoi movimenti, laddove l’epidemiologia osserva le conseguenze di quest’evoluzione nell’organismo ospite, studiando i sintomi delle persone malate e gli esiti dell’infezione».

Grazie a queste ricerche, si è arrivati a datare la comparsa del Sars-CoV-2 in un periodo antecedente al settembre 2019, «e sottolineo che noi abbiamo usato i pochi campioni disponibili all’inizio del 2020, mentre oggi si potrebbe fare ben di più» ricorda Ciccozzi, il quale studia da una vita i virus utilizzando i modelli matematici e ora è uno degli autori più prolifici di articoli scientifici sul Covid (51 pubblicazioni in essere e altre 4 accettate). Questa fortunata carriera scientifica è iniziata nella sconosciutissima via Sannio. «Mio padre faceva il fabbro alla Tiburtina e morì che mi aveva appena insegnato a usare saldatore e fiamma ossidrica. Per continuare a studiare Medicina mi misi a vendere magliette e jeans a Porta Portese – ricorda –. Passai a Scienze biologiche perché non richiedevano la frequenza e intanto continuai a vendere jeans con mia sorella all’Alberone. Il nostro è un quartiere popolare di Roma: per capirci, in quegli anni era bazzicato dalla banda della Magliana.

Finalmente, nel 1987, cioè nello stesso anno in cui ho sposato Simonetta, ho vinto il concorso all’Istituto superiore di sanità. Come tecnico di laboratorio, badate bene, e non come ricercatore: a quell’epoca l’importante era entrare, poi si avanzava per concorso; così feci anch’io. Andai a studiare alla John Hopkins University di Baltimora che avevamo già due figli; obiettivamente mi riuscì difficile rifiutare l’offerta di fermarmi là. Anche perché si trattava di un’offerta lautissima. Ma per me la sanità era quella che curava tutti, non solo i ricchi. Sono tornato quindi in Istituto, dove ho lavorato con Antonio Cassone, Donato Greco e Giovanni Rezza con il quale ho portato il primo corso di filogenesi, che riscosse un enorme successo». Di questa disciplina il figlio del fabbro è diventato uno dei massimi esperti internazionali, anche se non lo fa pesare a nessuno. Anzi, per dirla tutta, del barone universitario Ciccozzi ha davvero poco anche adesso che è ordinario e tutti gli chiedono di indovinare come si comporterà il virus dopo l’estate. «Solitamente – risponde – lui cerca di superare le barriere selettive che gli frapponiamo: non credo dunque che diverrà più contagioso ma che tenterà di selezionare un ceppo resistente ai vaccini.

Lo scontro si sposta su quel fronte». Oggi, quando parla delle mutazioni, tutti lo ascoltano, tuttavia, solo un anno fa, qualche collega lo accusava di 'stregonerie', arrivando a sovvertire le conoscenze più elementari sul virus pur di negare le scoperte della filogenesi. I suoi detrattori sostennero che questi microrganismi non mutassero finché arrivarono la variante inglese e quella indiana. Nessuno osò più fiatare. Del Covid-19 non ha mai avuto paura anche se, ammette, «all’inizio avevamo la sensazione di essere disarmati. Tuttavia, sapevamo e sappiamo ancora oggi di misurarci con un parassita intracellulare che muta per sfuggire al sistema immunitario, un virus che diventa via via più contagioso e infine endemico... Sapevamo e sappiamo che per fermarlo serve la distanza – la mascherina interviene quando non è possibile attuare un adeguato distanziamento –, insomma sapevamo e sappiamo di misurarci con un nemico che prima o poi avremmo vinto e vinceremo. Non come il cancro...» Tra ricordi e suggestioni, ecco spuntare la battaglia del professore. Il flagello che esisteva prima della pandemia ed è ancora lì, adesso. Una malattia contro la quale, diversamente dal Sars-CoV-2, hai molte medicine ma nessuna in grado di eradicarla. Del resto, come ti spiega il prof, il nemico peggiore è quello che non conosci fino in fondo.

«Mi hanno operato di un tumore alla tonsilla il 24 luglio 2020. Intervento radicale di sei ore, 33 sedute di radioterapia e due cicli di chemioterapia, tutto in fretta per essere pronti per l’avvio dell’anno accademico. E così è stato, anche se alle lezioni passavo più tempo a bere che a parlare, perché la faringe era bruciata dalle radio». Non si è fermato. Le lunghe ricerche sulle sequenze dei malati di Covid, che il mondo scientifico stocca nel Gisaid; le telefonate intercontinentali con Robert Gallo; gli studenti e le loro tesi; il lockdown intermittente e la famiglia con tutti i suoi problemi... e la Roma. Il professore ha vissuto il suo «normale» 2020 con un compagno di viaggio indesiderato. «È stato importante continuare a vivere 'normalmente', ovvero non dismettere nessun impegno, malgrado le difficoltà imposte dall’emergenza e quelle, ovvie, di carattere emotivo – racconta –; perché, è inutile negarlo, in quei momenti devi tenere la mente impegnata, altrimenti pensi al tumore e ti chiedi 'quanto durerò', oppure 'sarò davvero guarito'? La routine aiuta a combattere». Oggi l’esperto di Covid non ha dubbi. «Il coronavirus va prevenuto e contrastato ma non fa paura perché sai che prima o poi finirà. Il cancro, invece, è un ospite che non sai mai se e quando se ne andrà».

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