domenica 1 aprile 2018
Paese dell'hinterland di Milano “adotta” il giovane che viveva in strada, lo ascolta e capisce il suo dramma. Così parte una straordinaria catena di solidarietà.
Pepe all’arrivo all’aeroporto di Dakar, in Senegal, accolto dalla madre e dal fratello. La famiglia aveva perso le sue tracce, dandolo addirittura per scomparso. Ma la solidarietà della comunità di Bresso li ha fatti ricongiungere

Pepe all’arrivo all’aeroporto di Dakar, in Senegal, accolto dalla madre e dal fratello. La famiglia aveva perso le sue tracce, dandolo addirittura per scomparso. Ma la solidarietà della comunità di Bresso li ha fatti ricongiungere

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Questa è la storia di una rinascita: di un ragazzo e di una comunità. E, come in quelle imprevedibili sceneggiature che solo la vita reale sa scrivere, tutto comincia con un abbraccio, spontaneo e imprudente, tra una signora che ha appena ritirato i risultati di un esame del sangue e un ragazzo nero che da qualche giorno ha fatto dell’ingresso di un supermercato il suo giaciglio improvvisato. È l’autunno scorso, siamo a Bresso, Milano, e quel giovane migrante è già diventato l’argomento principale delle discussioni sui social: «Bisogna fare pulizia! Cosa fa il sindaco? È intollerabile», sono i post più benevoli. Il ragazzo di colore, infatti, non è violento, ma si comporta in modo strano: si sdraia davanti all'ingresso del supermercato, a volte anche all'interno, molto spesso è a piedi nudi nonostante il freddo, qualcuno ha paura dei suoi improvvisi slanci.

Non c’è più «decoro» si dice e c’è chi, ricordando cosa si fa in un Comune limitrofo, invoca un bel Daspo, un foglio di via e fuori. Anche se il ragazzo, lo si scoprirà poi, è regolare: viene dal Senegal e ha un permesso di soggiorno valido. I carabinieri, che si sono subito mossi, con fermezza e umanità insieme, gli impongono regole minime: divieto di dormire al coperto nella galleria dei negozi e di usare i giardini come un bagno. Il personale del super lo contiene, senza però maltrattarlo, anzi.

La svolta, appunto, arriva con quell'abbraccio, «nato così spontaneamente, senza pensarci. Ho capito che aveva bisogno di un contatto fisico, di sentirsi considerato. Poi mi ha preso le mani e mi ha guardato a lungo con uno sguardo dolce e malinconico e finalmente ha iniziato a scambiare qualche parola», racconta la signora che – come gli altri protagonisti di questa storiapreferisce non apparire. Comincia così un rapporto di fiducia che si allarga via via a tante persone che si prendono a cuore quel ragazzo sperduto. Dapprima c’è chi dà un aiuto materiale, porta del mangiare o dei vestiti. Quindi nasce un piccolo coordinamento di cittadini su Whatsapp: «Tu cosa gli hai dato?, Cosa hai capito? Starà bene?». Perché da subito si capisce che Pepe – così dice di chiamarsi – no, non sta bene. Non tanto fisicamente – gli esami del sangue e dei polmoni che gli vengono fatti fare non evidenziano malattie – ma psicologicamente.

«Non c’è con la testa», è chiaro a tutti. Soprattutto quando scappa in piena notte, a piedi nudi, dal dormitorio che gli era stato trovato per evitargli il rigore delle notti di dicembre. Una crisi di panico, come altre ce ne saranno, forse conseguenza di traumi subiti. Nei mesi intanto la rete degli “amici di Pepe” si è molto allargata: da subito ci sono due consiglieri comunali, che coinvolgono un assessore, ci sono le associazioni del territorio: la Caritas, le Acli, il Centro incontro, la San Vincenzo, i Cavalieri di Malta, la Croce rossa e gli operatori di Sant’Egidio che si occupano del vicino Cas, quello che ospita diverse centinaia di richiedenti asilo.

E poi, fondamentali, altri ragazzi senegalesi che attivano il consolato del loro Paese. Tra una chiusura a riccio e altri abbracci, si scopre così l’esatta identità del ragazzo, 26 anni, e si riesce a rintracciarne la famiglia: un fratello a Parigi, il padre e la madre in Senegal che, non avendo da tempo notizie del figlio, lo pensavano morto. Con la prefettura e il consolato vengono avviate le procedure per un “rientro assistito” in Senegal. Ma, nonostante l’aiuto sia costante, ci si rende conto che i tempi per la procedura burocratica sono troppo lunghi rispetto alla situazione di Pepe che si va compromettendo, anche per qualche bevuta di troppo, sia nel fisico sia nella mente. E allora è la solidarietà a osare di più. Con una colletta vengono raccolti i soldi per il biglietto aereo (ne avanzano addirittura per altri progetti); il consolato prepara un lasciapassare e provvede ad acquistare due valigie di abiti nuovi; gli altri ragazzi senegalesi si accordano con un’hostess e un passeggero per l’assistenza durante il volo.

E così Pepe, finalmente, a febbraio parte per tornare a Dakar. «Non so se abbiamo fatto le scelte più giuste al meglio delle nostre possibilità», riflette la signora di quel primo abbraccio, «ma a guardare le foto che Pepe ci ha mandato dopo aver passato un mese con la sua famiglia, penso che ora stia molto meglio, che abbiamo restituito un futuro possibile a un ragazzo che si era perso».

Pepe a casa sua è rinato. È stato salvato. Ma con lui, in effetti, si è salvata un’intera comunità. Non perché si sia tolta un peso, un problema. Ma perché in quel primo abbraccio, negli altri che tanti hanno dispensato dandosi da fare in mille diversi modi, ha ritrovato la pienezza della sua umanità. Davanti a un supermercato, una Pasqua vissuta nella carne viva.

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