venerdì 29 aprile 2016
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MILANO «Ma lei non è il tecnico del gas?». La domanda della sbigottita padrona di casa davanti a un uomo armato che irrompe con altri nell’appartamento degli inquilini, non ha sorpreso gli agenti della Digos di Lecco. Pochi giorni prima, infatti, l’abitazione era stata ispezionata da falsi addetti dell’azienda energetica. Con quel pretesto i poliziotti avevano raccolto gli ultimi indizi prima di arrestare Abderrahim Moutaharrik, lo jiahadista della porta accanto. Ma chi sono davvero il ragazzo disoccupato, traumatizzato da un lutto e subito arpionato dai seduttori del Daesh; o il pugile naturalizzato italiano che sogna di passare alla storia per un attentato colossale e non per il medagliere; oppure le famiglie che scappano dalla quiete del Lago di Como verso l’inferno della guerra siriana? L’insospettabile mujaheddin ha il volto di Abderrahmane Khachia, il 23enne arrestato in casa di un amico, anche lui di origine nordafricana, a Venegono Superiore, un paese alle porte di Varese, dove aveva trascorso la notte. Abderrahmane, rimasto disoccupato, vive assieme alla madre, al padre (che attualmente si trova in Marocco) e a una sorella. Uno stile di vita, il suo, tale da non destare sospetti. Anzi, la sua avrebbe potuto sembrare una storia di integrazione riuscita. Le partite a calcio con gli amici e le uscite in compagnia di coetanei italiani. Il suo riferimento, però, era sempre Oussama, il fratello di otto anni più grande. Una testa calda, perché Oussama era un foreign fighter ucciso in battaglia. Un trauma che accende in Abderrahmane il desiderio di vendetta. In una conversazione intercettata, il ragazzo inneggia agli attentatori del Bataclan, a Parigi, lanciandosi poi in proclami per i «leoni del califfato». All’altro capo del telefono c’era Abderrhaim Moutharrik, campione internazionale di kick boxing, nato in Marocco nel 1988 ma da anni residente a Bulciago (Lecco) insieme alla moglie, la connazionale Salma Bencharrk con cui sperava di raggiungere la terra promessa del Califfo. «Sarò io il primo ad attaccarli», prometteva a sua volta Moutaharrik attraverso messaggi vocali inviati sulla piattaforma Whatsapp, comunicando con Mohamed Koraichi, altro foreign fighter partito oltre un anno fa dalla stessa città con moglie e due bambini per unirsi all’Isis: «Giuro che l’attacco nel Vaticano si farà, con la volontà di Dio». Sua unica condizione, mettere in salvo la famiglia: «Tu sai - diceva a Koraichi -, voglio almeno che i miei figli crescano un po’ nel paese del califfato dell’Islam, il paese dove c’è la legge islamica». Lui e la moglie italiana Alice Brignoli hanno fatto perdere ogni traccia un anno fa, trascinando sotto le bandiere nere del Daesh i tre figlioletti. Prima della partenza «erano disoccupati e ricevevano sussidi statali ed aiuti dai loro genitori», si legge nell’ordinanza del gip di Milano. Mohamed Koraichi frequentava regolarmente le moschee di Costa Masnaga, Lecco e quella milanese di viale Jenner. Mohamed «si prestava anche alla lettura del Corano – spiega l’ordinanza del giudice – durante le funzioni religiose del venerdì». Per organizzare il viaggio in macchina verso la Siria, attraverso Bulgaria e Turchia, marito e moglie avevano chiesto, senza ottenerlo, un finanziamento di 7 mila euro. L’ombra scura del Califfato e del terrorismo si allunga ormai da tempo su questa area, a cavallo tra le province di Monza e Brianza e una parte di quelle di Lecco e Como. Prima del Daesh la Brianza ha già fatto i conti con al Quaeda. Abitavano a Giussano due marocchini arrestati nel 2008 mentre preparavano attentati a Milano. Ed erano residenti in zona alcuni dei primi espulsi dall’Italia per ideologia jihadista. Dalla Brianza sono partiti anche i primi foreign fighter, tra cui Valbona Berisha, una donna albanese di 33 anni, che abitava a Barzago (Lecco). Il 17 dicembre 2014 è fuggita in Siria, portando con sè il figlio di 6 anni e lasciando al marito Afrim Berisha altri due bambini. Non molto lontano dalla Brianza, a Inzago (Milano), viveva la donna del Califfato forse più famosa, Maria Giulia 'Fatima' Sergio, che si troverebbe in Siria. Ma il personaggio più controverso resta il pugile Moutaharrik. Nel suo palmares ci sono 14 combattimenti: 12 vinti di cui 5 per ko, un pareggio e una sola sconfitta, in Romania. Un curriculum che lo rendeva un avversario temibile, stimato dalle altre palestre e tenuto in grande considerazione dai compagni di squadra con cui trascorreva ore sul ring. Una foto di dieci giorni fa lo ritrae dopo una sessione di allenamento: indossa una maglia con la scritta 'I love Palestine', mentre indossa una sorta di turbante, punta il dito verso l’alto e dice «Quando la guerra chiama i guerrieri scendono in battaglia». E non si riferiva al ring. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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