mercoledì 18 marzo 2020
Il dottor Giovanni Albano guida la Terapia Intensiva del Gavazzeni di Bergamo: il nemico è subdolo, ci circonda. Questo momento per noi è l'essenza della professione
Un reparto di terapia intensiva

Un reparto di terapia intensiva - Fotogramma

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«Sì, quando tutto sarà finito saremo medici migliori»: l’aveva scritto in una drammatica testimonianza per avvenire.it il dottor Giovanni Albano domenica 8 marzo, quando l’epidemia stava scoppiando tra le mani dei medici di tutta la Lombardia e lui, primario di Anestesia e Terapia Intensiva all’ospedale Gavazzeni di Bergamo (Humanitas) se ne è ritrovato da un momento all’altro in uno degli epicentri.

«Non abbiamo conosciuto la guerra – scriveva nell’articolo che ha fatto il giro del web, totalizzando un numero record di visualizzazioni – ma questa è la nostra guerra. Il nemico adesso ti accerchia, sembra come in quei film dove per ognuno che fronteggi dieci ne spuntano da tutte le parti. Puoi solo contenere o abbandonare... ».

È ancora così, dottor Albano? Si sente ancora in guerra contro mille nemici? «L’organizzazione rende meno affannosa e ansiosa la possibilità della cura, si fa meno fatica rispetto all’inizio della scorsa settimana, quando il flusso dei malati è stata una marea in piena», risponde in una pausa del suo frenetico correre nei corridoi dell’ospedale. La struttura, tra le più importanti a Bergamo dopo il Papa Giovanni XXIII, è stata rapidamente riconvertita: i 300 posti letto sono ora tutti occupati da malati di Covid-19, le postazioni di rianimazione sono passate da 12 a 20, con in più un’area destinata alla ventilazione non invasiva, attrezzata con una 30ina di posti letto.

Il Pronto soccorso funziona a pieno ritmo. Ma la guerra con un nemico perfido, quella sì, è rimasta, seppure più organizzata. «È una malattia subdola: con tanti pazienti registriamo un precipitare della situazione, un peggioramento repentino. Stai assistendo una persona con modalità minimali, e d’improvviso ti trovi con la necessità di rianimare. Questo accade più volte al giorno, e dobbiamo intubare più pazienti in contemporanea, aspettare i trasferimenti, le risposte del Centro regionale di coordinamento, collocando temporaneamente i pazienti in aree non adeguate. Quindi sì, provo ancora la sensazione di essere circondato, di non riuscire a fare fronte...».

Nei giorni scorsi si è parlato del dilemma della scelta di fronte a tanti pazienti che hanno bisogno di cure invasive e urgenti, ma per il dottor Albano ciò che mette alla prova la professionalità del rianimatore nell’emergenza coronavirus è piuttosto la capacità di prevedere la possibilità del malato di riprendersi, al cospetto di una malattia gravissima e spesso in presenza di altre patologie.

Anche all’Humanitas di Bergamo diversi medici e infermieri si sono ammalati. Come si affronta la paura del contagio? «C’è la consapevolezza di un nemico molto subdolo, infido e pericoloso, ma la paura si trasforma in ansia positiva, adrenalina che spinge a fare di più e meglio».

Esiste il timore di costituire un rischio per la propria famiglia? «Il ritorno a casa è un momento psicologicamente utile e favorevole e un vero e proprio eremitaggio non è fattibile. Cerco di limitare i miei spazi, ma mantenendo il contatto con la famiglia. Che è poi l’unico che mi resta». Nonostante una lunga carriera in ospedali di varie città d’Italia, da Torino a Catanzaro, per il dottor Albano questo è senz’altro il momento di maggior difficoltà «professionale e umana».

A livello psicologico come si sopporta? «Cercando di cogliere l’opportunità che ti offre questo momento: di esserci, di contribuire, di aiutare. È una spinta forte, profonda. È trovare l’essenza della professione. Vale per tutti: per i vertici dell’ospedale, che lavorano senza sosta, per tutti i colleghi medici, che stanno riconvertendo le loro competenze, per gli infermieri, che mostrano uno spirito di abnegazione straordinario». I pazienti sono isolati, nessuno può andare a visitarli e questo rende più doloroso il passaggio attraverso la malattia; medici e infermieri donano un surplus di attenzione, di comprensione, di vicinanza.

Dottor Albano, crede ancora che quando tutto questo finirà, sarà un medico migliore? «Sì. Credo che saremo tutti meno distratti rispetto alle esigenze del malato, anche e soprattutto le più piccole. Per mancanza di tempo e per metodiche ormai diventate numerosissime spesso abbiamo perso la capacità di ascoltare. Questa malattia, così sconosciuta e così crudele, ci ha messo davanti alla necessità di ascoltare le paure del paziente e le sue incertezza sulla guarigione. Di fronte alla loro angoscia, una delle poche armi che ho visto funzionare davvero è offrire conforto, tranquillità e sicurezza. I pazienti sono tanti ed è un momento di grande sforzo. Ma è l’unica strada che abbiamo».

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