sabato 22 dicembre 2012
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«Non rimpiango nulla: dalla vita bisogna prendere il meglio di quello che ci dà e cercare di essere felici di questo. Io avevo una famiglia che non mi aveva abbandonato, avevo la fede e non era poco...». Non c’è rancore né acrimonia nelle parole di Giuseppe Gulotta alla vigilia del suo primo Natale da uomo completamente libero.
Eppure, trentasei anni fa, quando aveva diciott’anni e voleva fare il finanziere, fu arrestato (innocente) per duplice omicidio. L’inizio di un incubo. «I primi anni, nonostante i pestaggi e le torture, li ho vissuti con una certa incoscienza - ricorda - . I miei familiari mi tranquillizzavano certi che al processo la verità sarebbe venuta a galla, poi fui scarcerato per scadenza dei termini di custodia...». Ma il peggio doveva ancora arrivare. Perché i carabinieri in quel momento erano certi di aver individuato gli esecutori della strage di Alcamo Marina: il 27 gennaio 1976 furono uccisi nel sonno, crivellati di colpi, due giovani militari dell’Arma, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta.
Nel corso delle indagini venne prima fermato un giovane vicino ad ambienti anarchici, Giuseppe Vesco, che confessò e fece i nomi dei complici: Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli, allora minorenni, Giuseppe Gulotta e Giovanni Mandalà. Vesco si uccise in carcere, in seguito morì Mandalà. Alla fine del processo Ferrantelli e Santangelo, fuggiti in Brasile, furono condannati a 14 e 22 anni, e Gulotta all’ergastolo. In quegli anni Giuseppe incontra Michela, una donna reduce da un’unione fallita con tre bambini che Giuseppe ama come suoi; con lei inizia una relazione da cui nasce un figlio, William. Apre una piccola ditta di pavimentazioni, ma nel 1990, quando la sentenza diventa definitiva, deve tornare in carcere. E questa volte le porte sembrano chiudersi definitivamente. «Per non impazzire potevo contare solo sulla certezza granitica della mia innocenza, sul calore della mia famiglia e soprattutto sulla mia fede. Da Dio non mi sono mai sentito abbandonato nemmeno nei momenti più difficili».
Giuseppe prega, non manca mai a messa perché ha bisogno di quella forza. «Pregavo Dio di darmi il coraggio di andare avanti per studiare le carte del processo. In quegli anni ho fatto come si fa con i muli in Sicilia: mi sono messo i paraocchi, non m’importava cosa succedeva intorno, io dovevo guardare avanti e andare fino in fondo. Mi sono aggrappato all’ordinamento penitenziario per ottenere tutti i benefici che potevo, nel frattempo cercavo di ottenere la revisione ma nessuno pareva ascoltarmi. Per alcuni anni non ho potuto vedere mio figlio. Quando finalmente ho ottenuto di poter incontrare i miei familiari senza il diaframma del vetro, William mi stava incollato al collo come un francobollo. Il mio parroco don Alberto veniva a trovarmi regolarmente, mi portava mio figlio, m’incitava a non mollare».
Fino a quando si fece avanti l’ex brigadiere Renato Olino presente alle torture commesse nel ’76 per estorcere le confessioni (risultate false). «Erano quattro ragazzini, Gulotta giovanissimo, aveva 18 anni, sembrava un pulcino bagnato», riferì ai magistrati della Procura di Trapani che riaprirono l’inchiesta. Nel febbraio scorso, il processo di revisione a Reggio Calabria ha sancito l’assoluzione piena per Gulotta. Cinque mesi dopo sono stati scagionati anche Ferrantelli e Santangelo. «Ancora oggi tremo se ripenso a quel giorno: è stata una liberazione, una rinascita. Guardo i miei figli che lavorano onestamente e mi sento gratificato. Nonostante fossi additato come un delinquente gli ho insegnato l’onestà e la dignità. In parrocchia pregavano continuamente per me. Dopo la sentenza siamo andati in pellegrinaggio al santuario di Loreto con il nostro parroco don Pierfrancesco: volevamo ringraziare Dio e la Madonna per non averci abbandonato». A settembre Giuseppe e Michela si sono sposati nella loro parrocchia, a Certaldo in Toscana. «Ho voluto che a concelebrare ci fosse anche il cappellano del carcere di Trapani, don Giovanni Mattarella: è stato lui a sostenermi in quei primi anni difficili. Dopo 36 anni, 22 dei quali in carcere, io ho avuto giustizia ma probabilmente non sapremo mai chi ha ucciso quei due poveri carabinieri e perché».
I magistrati scavano ancora alla ricerca della verità, senza trascurare il ruolo di Gladio, la cellula segreta para-militare scoperta negli anni Novanta. Del caso di Alcamo si occupò anche il giornalista Giuseppe Impastato, ucciso poco dopo dalla mafia.
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