venerdì 7 agosto 2020
Il Comitato tecnico scientifico il 7 marzo suggeriva chiusure solo locali. Ma 7 giorni prima aveva chiesto di raddoppiare i letti nei reparti Covid e aumentare quelli nelle terapie intensive
Due addetti effettuano un tampone

Due addetti effettuano un tampone - Reuters

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Fine febbraio 2020, Italia. Non possiamo saperlo, però non manca troppo al botto pandemico anche da noi. Probabile che al “Comitato tecnico scientifico” (Cts) comincino a sentire la puzza della miccia che brucia: riunione del 28 febbraio, il verbale, uno dei (soli) cinque desecretati, racconta che il Cts vede “una situazione epidemiologica complessa” soprattutto in Emilia Romagna, Lombardia e Veneto e ritiene vada confermata la ‘zona rossa’ decisa per undici comuni (Bertonico, Casalpusterlengo, Castelgerundo, Castiglione D'Adda, Codogno, Fombio, Maleo, San Fiorano, Somaglia, Terranova dei Passerini, Vo’ Euganeo). Il giorno prima (27 febbraio) i contagiati dal Covid nel nostro Paese sono 650, i morti 17, negli ospedali sono ricoverate 248 persone e 56 nelle terapie intensive.

Tutto accade velocemente, quasi precipita. Verbale del 1 marzo: “Il Cts rileva che la situazione è continuamente in evoluzione e, in relazione a questa, si potranno adottare tempestivamente ulteriori provvedimenti di contenimento”. Ora fiutano davvero, preoccupati, quella puzza di miccia bruciata. Due giorni e il 3 marzo Il Cts “propone di adottare le opportune misure restrittive già adottate nei comuni della zona rossa anche in questi due comuni” per “limitare la diffusione dell’infezione nelle aree contigue”, riferendosi ad Alzano Lombardo e Nembro. Invece il governo ci riflette su e non li chiude.

Torniamo un istante al 28 febbraio: i contagi quel giorno sono saliti a 888 e i morti a 21, i ricoverati a 345, dei quali 64 in terapia intensiva. Poco più d’una settimana e inizia il botto: l’8 marzo i contagi si sono moltiplicati otto volte (7.375), i ricoverati dodici (4.207, 3.557 nei reparti Covid e 650 nelle terapie intensive), i morti diciassette volte e mezza (366). Ventiquattro ore dopo (alle 21 e 30 del 9 marzo) Palazzo Chigi annuncia il lockdown nazionale.

Quarantotto ore prima (il 7 marzo), le valutazioni del Comitato tecnico scientifico erano state circoscritte, consigliando misure più restrittive solo per le tre Regioni nelle quali il Coronavirus sta più montando. Eppure quel 1 marzo il Cts aveva chiesto che, “nel minor tempo necessario, in strutture pubbliche e private accreditate” siano aumentati “del 50% i posti letto nelle terapie intensive e del 100% quelli nei reparti di pneumologia e di malattie infettive, isolati e allestiti con la dotazione necessaria per il supporto ventilatorio”. Non solo, aveva anche suggerito di mettere in piedi “un percorso formativo ‘rapido’ qualificante per il supporto respiratorio per infermieri e medici da destinare alle aree di subintensiva”. Ed eravamo solamente come detto al 1 marzo, cioè nove giorni dopo la scoperta del primo focolaio di Covid in Italia (il 20 febbraio, a Codogno).

Buco, poi: mancano i verbali dall’8 al 29 marzo, che non è dato leggere, quindi con un bel balzo arriviamo al 30. Intanto il 29 avevamo cominciato a ballare verso la cresta dell’onda pandemica: i casi totali sono diventati 97.689, i positivi quel giorno 73.880, negli ospedali ci sono 31.292 persone (27.386 nei reparti Covid e 3.906 nelle terapie intensive), i morti sono a 10.779.

Forse per questo nella riunione del 30 marzo il Cts mostra d’aver cambiato idea: “Condivide la necessità di mantenere le misure attualmente in essere almeno fino a tutto il periodo pasquale”, si legge nel verbale. E addirittura si duole che “alcune raccomandazioni e/o norme tecniche o circolari emanate dal ministero non vengano prontamente recepite dal territorio, mostrando la mancanza d’applicazione delle decisioni assunte”.

Altro buco nei verbali a disposizione, niente fino al 9 aprile. Il giorno prima i contagi totali sono 139.422, i positivi 95.262, negli ospedali sono ricoverate 32.178 persone (28.485 nei reparti Covid, 3.693 nelle terapie intensive), i morti 17.669. Fare due conti mette i brividi: dall’8 marzo, nel giro di un mese (nonostante quasi interamente segnato dal lockdown nazionale), i contagi nel nostro Paese si sono moltiplicati poco meno di diciannove volte, i positivi quasi quindici, i ricoverati sette volte e mezza, i morti quarantanove volte.

La popolazione deve essere pienamente consapevole del rischio e deve partecipare attivamente alle misure di protezione predisposte dal governo”, scrive il Cts nel verbale datato 9 aprile. Va avanti: “Il lockdown deve essere rimosso progressivamente e per fasi successive in base alla valutazione e alla gerarchia del rischio in ciascuna struttura a rilevanza sociale”, però “devono esserci almeno due settimane di intervallo tra la rimozione di ciascuna macro-restrizione”, per poter “valutare il rischio di riaccensioni epidemiche”.

Ventiquattr’ore dopo, il 10 aprile, i casi totali arriveranno quasi a sfondare quota 150mila (147.577), i positivi quasi quota 100mila (98.273), i ricoverati saranno 31.739, i morti quasi 19mila (18.849). E ci vorrà un’altra decina di giorni per raggiungere davvero il picco pandemico in Italia e, lentamente, cominciare a scendere.

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