venerdì 23 marzo 2012
​Il ministero: affidarli ad associazioni di medici di famiglia, di medicina generale e specialisti, cooperative di giovani dottori, secondo criteri di massimo impegno quotidiano e orario per potenziare la medicina del territorio e di prossimità.
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​Gli ospedali italiani sono troppi (e troppo costosi). Da anni governo, ministero della Salute e Regioni lavorano ad un corposo piano di razionalizzazione, ormai in atto, che non tornerà in discussione. Tuttavia, razionalizzare non significa necessariamente dismettere, soprattutto per quei piccoli nosocomi che, in tanti centri medio-piccoli del Paese, hanno spesso rappresentato qualcosa di più che semplici luoghi di cura. Ieri il sottosegretario alla Salute, Adelfio Elio Cardinale, «prendendo atto» delle istanze di tanti comitati locali, ha fatto sapere che intende «esperire le possibilità di affidare tali strutture pubbliche ad associazioni di medici di famiglia, di medicina generale e specialisti, cooperative di giovani dottori, secondo criteri di massimo impegno quotidiano e orario».L’iniziativa del sottosegretario muove anche da una necessità particolarmente avvertita in questi mesi: «Potenziare la medicina del territorio e dei servizi di prossimità, al fine di arginare il fenomeno dell’alto numero di pazienti impropri che si rivolgono al pronto soccorso per patologie anche banali». Del resto, anche le strutture di emergenza, non di rado, devono fronteggiare tagli e "riordini" che, sommati alla scarsa efficienza della medicina del territorio, causano sempre più numerosi casi di affollamento, intasamento e disorganizzazione nei grandi ospedali cittadini e metropolitani.La proposta, spiega una nota del ministero, «intende collocarsi in un più ampio progetto che veda una maggiore organizzazione dei servizi sanitari per i piccoli centri urbani, salvaguardando l’esistenza anche parziale dei piccoli ospedali, con riconversioni settoriali, dopo un’analisi delle varie tipologie oro-geografiche». Anche in considerazione del fatto che spesso queste strutture «anziché essere sul mercato, diventano sede di utilizzo improprio e spesso gratuito dei più svariati gruppi o associazioni», quando, addiruttura, non si trasformano in costruzioni inagibili e fatiscenti.I primi commenti alla decisione del sottosegretario sembrano trovare terreno fertile: «Non può che suscitare attenzione e interesse un approccio ai problemi che consideri prioritarie le forme di sussidiarietà», dice il vicedirettore di Caritas italiana, Francesco Marsico. «Bisogna tuttavia studiare soluzioni – aggiunge – in uno scenario razionale e coerente per tutto il territorio senza creare spezzatini sui diritti delle persone e privilegiando il canale socio-assistenziale; ora il ministero attivi una consultazione con le diverse forze sociali».Parole propositive anche da Johnny Dotti, presidente di Welfare Italia, per il quale «la dinamica della cooperazione è il vettore culturale e pratico più appropriato per suscitare una partecipazione di una pluralità articolata di attori e ottenere risultati anche economicamente significativi». Inoltre, evidenzia Dotti, «le "cittadelle della salute" cui il sottosegretario si riferisce, sono un bell’esempio di come nelle comunità possano essere fatti esistere, con spese contenute e forte capacità di sostenibilità, dei luoghi di cura aperti e accessibili, autenticamente popolari e territoriali, dove la medicina di comunità possa essere espressa in un contesto integrato e attento a tutti i bisogni della persona. È in luoghi come questi che si può fare la vera integrazione tra sanitario e sociale».Un concetto condiviso da Marco Bregni, presidente di "Medicina e Persona": «Ben venga la proposta del sottosegretario di utilizzare le strutture per la medicina territoriale o per cooperative di giovani medici. Tale riconversione però – dichiara Bregni –, va effettuata con attenzione ai bisogni del territorio e nell’ottica di un miglioramento, e non di riduzione, dell’offerta terapeutica». Va poi «tenuto conto dell’invecchiamento generale della popolazione e dei cambiamenti dei bisogni», mentre «è illusorio pensare che sia sufficiente allungare a 12 ore l’attività lavorativa del medico di famiglia per ridurre l’afflusso al pronto soccorso». È necessaria, invece, «una progettualità del territorio, che va dotato di risorse e mezzi».Dall’idea alla pratica. Cardinale intende ora aprire un confronto con Regioni, ordine dei medici, associazioni di medicina generale e facoltà mediche, nonché con i professionisti dell’area sanitaria «al fine di un fruttuoso concerto – si augura il sottosegretario – con possibili e auspicabili contributi e suggerimenti migliorativi».
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