venerdì 21 gennaio 2022
Indifferenza delle istituzioni, fondi insufficienti, lo scoglio della burocrazia e degli accreditamenti: le strutture che si fanno carico di oltre 500 pazienti sono in crisi. «Senza aiuti chiudiamo»
Uno degli ospiti delle case del Cica, il Coordinamento che riunisce la strutture che accolgono e si prendono cura degli oltre 500 malati terminali di Aids nel nostro Paese

Uno degli ospiti delle case del Cica, il Coordinamento che riunisce la strutture che accolgono e si prendono cura degli oltre 500 malati terminali di Aids nel nostro Paese

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Malati, rifiutati, dimenticati, senza niente. Se si decidesse di stilare una classifica degli ultimi, nel nostro Paese, i malati terminali di Aids occuperebbero senz’altro il posto più basso. C’è un minimo di attenzione delle istituzioni, anche se spesso malgestita, sui migranti e i clochard. C’è l’impegno a fare meglio, per organizzare la vita nelle strutture per disabili e anziani non autosufficienti. C’è dibattito sulle condizioni dei carcerati, dei tossicodipendenti e dei malati di mente, spesso parcheggiati in strutture dove almeno arriva l’occhio delle telecamere, e qualche volta di qualche inchiesta dai risvolti terribili. Dei malati di Aids, invece, non importa nulla a nessuno. Pochissimi, scomodi, invisibili come il virus che li ha inghiottiti e per cui esistono cure che hanno cambiato la vita di chi è venuto dopo di loro, o che se avevano già a disposizione non hanno usato per tempo.

A occuparsi di queste persone, circa 500 ogni anno da Nord a Sud, pensano 50 case riunite in un Coordinamento nazionale (Cica): luoghi in cui prende forma quotidianamente lo sforzo immane di decine di professionisti sanitari – infermieri, oss, fisioterapisti –, di educatori, psicologi e soprattutto di volontari. Obiettivo: raccogliere i cocci di vite distrutte, spesso dalla dipendenza prima, o dal disagio, poi dalla malattia che con sé porta solitudine (le famiglie nella maggioranza dei casi abbandonano o allontanano un sieropositivo), povertà (perché chi ha l’Aids non trova facilmente lavoro o non è nelle condizioni fisiche di svolgerlo), destino di morte. Alle case del Cica i malati sono indirizzati direttamente dalle aziende sanitarie locali e per chi entra in strutture “ad alta intensità” – attrezzate cioè per seguirli anche dal punto di vista terapeutico oltre che da quello del reinserimento sociale – è la sanità pubblica a pagare le rette in toto: un aiuto importante, se non fosse che rette e convenzioni nel tempo non sono state aggiornate «col risultato – denuncia il presidente del Cica, Paolo Meli, pilastro dell’Associazione Comunità Emmaus di Bergamo (dove sono presenti altre due case) – che il nostro sistema, già prima del Covid appeso soltanto allo sforzo enorme delle associazioni e delle cooperative che lo gestiscono, ora è praticamente al collasso».

Non bastano 130 euro al giorno (con l’indice medio Istat sul costo della vita di una persona normale a 163 euro) per farsi carico di un malato di Aids nelle strutture ad alta intensità di cui si diceva poco fa, e pensare che la cifra è quella erogata – ormai dal 2006 – dalla ricca Regione Lombardia, che per altro esige dalle case di entrare nel percorso di accreditamento (fino ad ora sono state solo strutture convenzionate) al costo di un iter burocratico complicato e lunghissimo, «che nella migliore delle ipotesi riusciremo a completare nel 2023 – continua Meli –. Il punto è che al 2023 in queste condizioni rischiamo di non arrivarci del tutto». Per non parlare di altre regioni, dove i soldi si vedono a singhiozzo o dove nemmeno le convenzioni sono state rinnovate (è il caso della Campania). «Il risultato, oltre al fatto che di case nuove non ne nascono più, è che in quelle esistenti non riusciamo più a inserire nessuno». E questo nonostante il problema dell’Aids sia tutt’altro che scomparso: fatta una netta distinzione tra gli ospiti delle case – che oltre che con il virus fanno i conti con le fragilità di cui si è detto – e chi si scopre positivo ogni anno, nel 2020 (quando complice il Covid le nuove diagnosi si sono più che dimezzate) di Hiv si sono ammalate altre 1.303 persone e i dati hanno confermato un’impennata allarmante tra i giovani sotto i 25 anni.

Presa di consapevolezza e campagne di prevenzione? Quasi del tutto inesistenti ormai. E nel silenzio generale regna ancora incontrastato lo stigma, che continua a rendere particolarmente faticosa la convivenza con un virus che di per sé, nella maggior parte dei casi, è completamente tenuto sotto controllo dalle terapie, non è trasmissibile se la persona si cura correttamente e consente di vivere in maniera assolutamente normale. «I nostri ospiti fanno i conti con queste fatiche di fondo e con le conseguenze della malattia conclamata, della solitudine e dell’abbandono. Nelle nostre strutture vengono “parcheggiati” senza che ci siano dati strumenti economici adeguati per aiutarli. Chiediamo attenzione, fondi – insiste Meli –. L’accompagnamento che garantiamo nella cronicità o nella cronicizzazione della malattia è a tutti gli effetti un servizio pubblico, che senza di noi non potrebbe essere svolto da nessuno». Il rischio è che dalle case si finisca per la strada a morire, nell’indifferenza generale.

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