mercoledì 27 maggio 2020
Allarme degli esperti: polmoni a rischio per 6 mesi. E il 30% dei pazienti potrebbe avere problemi cronici. Spossatezza, disorientamento, depressione: l’identikit di chi viene dimesso
Guariti o dimessi? Ecco i segni che il Covid lascia (almeno per un po')

Ansa

COMMENTA E CONDIVIDI

Con buona pace di chi, tra gli esperti, guarda ancora con timore alla ormai esile curva dei nuovi contagi da coronavirus in Italia (anche ieri i dati hanno evidenziato una sostanziale frenata dell’epidemia, con un ulteriore crollo del numero di malati), la nuova sfida della medicina ora sono i “guariti”. O meglio, quelli che guariti vengono definiti per comodità dal Bollettino quotidiano della Protezione civile, ma che in buona sostanza corrispondono ai “dimessi”: pazienti che si sono ammalati di Covid-19, sono transitati in qualche modo attraverso le maglie del Sistema sanitario (chi ricoverato, chi seguito e monitorato a distanza) e che hanno superato la fase acuta della malattia. Un esercito di 144.658 persone, sulle cui condizioni di salute non esistono ancora dati certi: stanno bene? Si sono completamente ripresi? Hanno conseguenze del coronavirus e, se sì, quali? Rispondere alle domande, per la scienza, è difficile almeno quanto comprendere come funziona il Sars-Cov-2: il virus è nato da poco più di 7 mesi, i più “anziani” tra i guariti se va bene sono usciti dalla malattia a gennaio, nel nostro Paese a metà marzo.

Scritto nei polmoni

Ieri è stata la Società italiana di pneumologia a tracciare un primo bilancio, decisamente negativo: in base ai primi follow-up sui pazienti dimessi, incrociati coi dati empirici raccolti dai medici cinesi e confrontati con quelli relativi all’epidemia di Sars del 2003, l’infezione potrebbe infatti lasciare strascichi a lungo termine sulla funzionalità respiratoria e talvolta comprometterla in modo irreversibile, soprattutto nei pazienti usciti dalla terapia intensiva. Insomma, i polmoni di chi si è ammalato rimarrebbero segnati a lungo (dai 6 ai 12 mesi), o addirittura per sempre (nel 30% dei casi), al punto da far parlare gli esperti di una possibile «nuova emergenza sanitaria». L’uso del condizionale, però, è d’obbligo: «Non abbiamo al momento dati certi sulle conseguenze a lungo termine da polmonite da Covid-19. È trascorso ancora troppo poco tempo dall’inizio dell’epidemia a Wuhan, dove tutto è cominciato – ammette Luca Richeldi, membro del Comitato tecnico e scientifico per l’emergenza coronavirus, presidente della Sip e direttore del Dipartimento di Pneumologia del Policlinico Gemelli di Roma –. Tuttavia le prime osservazioni confermano il sospetto che come la Sars anche il Covid-19 possa comportare danni polmonari che non scompaiono alla risoluzione della polmonite».

L’identikit del guarito

Chi invece ha già cominciato a produrre puntuale letteratura scientifica sui pazienti post-Covid sono gli esperti in medicina riabilitativa, che ormai da settimane incrociano dati e report a livello internazionale tentando di tracciare linee comuni di intervento nelle terapie. Del board europeo fa parte Maria Gabriella Ceravolo, ordinario di Medicina fisica e riabilitativa all’Università Politecnica della Marche e coordinatrice di un progetto innovativo nato in Italia a metà marzo proprio per gestire la convalescenza dei pazienti guariti dal Covid: «Insieme agli Ospedali Riuniti di Ancona – spiega – abbiamo creato una piattaforma di rieducazione terapeutica a distanza, accessibile a tutti e gratuita, in cui attraverso filmati mostriamo ai convalescenti il percorso da seguire nelle settimane successive al ricovero». Tra i 30mila contatti accumulati in due mesi dal portale (da ogni parte d’Italia e anche dall’estero, visto che la piattaforma è accessibile anche in lingua inglese) emerge con chiarezza l’identikit del “guarito”, confermato dagli studi pubblicati sulle riviste internazionali: «Fino al 50% di chi è stato ospedalizzato – continua Ceravolo – presenta quella che in termini sanitari si chiama “sindrome da decondizionamento”: difficoltà motoria, senso di spossatezza e affaticamento quasi invalidanti ». Si tratta di uno stato transitorio, in due o tre settimane se correttamente seguiti, anche a distanza, i pazienti si riprendono. L’impatto, ovviamente è più consistente nella fascia di popolazione più anziana «ma anche i pazienti tra i 40 e i 50 anni presentano conseguenza pesanti dal punto di vista di fisico».

L’abisso della depressione

Altri scogli della convalescenza, quelli neurologici, soprattutto per chi è stato in rianimazione: «I numeri ci dicono che nel 30% dei casi si presentano encefalopatie, con stato di confusione, disorientamento, fatica a concentrarsi. Aumenta anche il rischio di ictus». E poi l’abisso dei problemi psicologici, enormi, soprattutto nelle persone che presentavano patologie pregresse come la demenza: «La sindrome depressiva è una cifra comune del paziente post-Covid – continua Ceravolo –, unita agli altri elementi di cui abbiamo parlato crea indubbiamente un nuovo scenario dentro cui dovremo in fretta imparare a muoverci: superata la fase acuta della malattia e lo scoglio prioritario del “salvare vite”, il nostro Sistema sanitario cioè dovrà iniziare a guardare al medio e lungo periodo». Non è un caso se al Policlinico Gemelli di Roma è stato attivato un Day hospital post-Covid e a Pavia un ambulatorio dedicato ai pazienti dimessi dal San Matteo. E ancora, resta un’altra incognita: che cosa è successo a chi è rimasto a casa. Solo col Covid, perché gli ospedali erano pieni, e - oggi - solo coi suoi postumi.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: