martedì 20 marzo 2012
​La task force guidata dal ministro Passera punta ad emanare ad aprile un ddl di riordino delle norme. Procedono bene i lavori a Venezia per il sistema di dighe mobili, mentre il resto dei progetti è ancora sotto esame. Censis: dal 1990 investimenti crollati del 35%.
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Lavori a rilento sulle grandi opere. Sbloccati a dicembre 12,5 miliardi di euro dal Cipe, ora l’obiettivo del governo è accelerare la riapertura dei cantieri fermi e decidere il destino delle infrastrutture-simbolo. Ma non è un’impresa facile, visto che un’opera su due non vede la luce. Già venerdì altri 300 milioni dovrebbero essere «scongelati», tra cui «20 milioni per i primi interventi in Val di Susa» ha annunciato ieri il viceministro Mario Ciaccia.

Ovviamente, il caso della Tav ha monopolizzato in questa fase l’attenzione dell’esecutivo: intorno al futuro della Torino-Lione non è in gioco solo il delicato equilibrio tra lo sviluppo infrastrutturale del Paese e le ragioni della popolazione locale. Si misura anche un «metodo» di governo che potrà valere per i prossimi anni. Su questo fronte sono attese le novità più importanti, a partire dalla legge sul modello francese del Débat public, il pubblico dibattito, che aprirà consultazioni a scadenza fissa (sei mesi) con i territori interessati dalle opere. Nel merito, già oggi possiamo dire che non solo la Tav, ma anche il Mose, vengono considerate da Palazzo Chigi infrastrutture strategiche. A dicembre, l’esecutivo ha dato il via libera a «un’ulteriore tranche di 600 milioni di euro per dare continuità» al sistema delle dighe mobili, definito «un’opera chiave per la difesa di Venezia e della sua laguna». L’avanzamento dei lavori del Mose ha superato il 70% ed entro fine anno raggiungerà l’80%. «Non ci sono altri dati quantitativi» fanno sapere dal ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, dove una task force guidata dal ministro Corrado Passera ha messo sotto la lente tutti i passaggi procedurali, dagli aspetti finanziari fino alla messa in opera. Nelle prossime settimane verrà lanciato un vero e proprio piano, che chiarirà le priorità. Si capirà a fine mese, ad esempio, se il Ponte sullo Stretto verrà accantonato oppure no e se serviranno i fondi sbloccati a favore degli 82 piccoli interventi sulla mobilità nel Mezzogiorno. Analogo discorso vale anche per i nuovi 40 cantieri da attivare nei primi tre mesi dell’anno. «L’obiettivo immediato è uno solo – continuano dal ministero –. Evitare lo stop ai lavori, impedire come avviene oggi che un iter avviato possa interrompersi. Vogliamo verificare le pratiche dall’inizio alla fine, sbloccando se necessario le singole parti procedurali». In concreto, ad aprile dovrebbe arrivare un disegno di legge organico per rendere più omogenea la normativa sulla realizzazione delle infrastrutture.

Del resto il grande gelo, al di là dei proclami lanciati nelle ultime legislature, è stato certificato ieri da una ricerca ad hoc del Censis. Dal 1990 al 2010 gli investimenti pubblici sono crollati del 35% e lo sviluppo infrastrutturale si è praticamente bloccato: in 20 anni la rete autostradale è cresciuta in Italia del 7%, contro il 16% della Germania, il 61% della Francia e addirittura il 171% della Spagna. Stiamo attraversando una «crisi durissima» ha detto nei giorni scorsi il presidente dell’Ance, l’associazione dei costruttori, Paolo Buzzetti. Il grido d’allarme delle imprese è sostanzialmente condiviso anche dagli altri attori della partita infrastrutturale. «Servono poche regole chiare e una maggiore certezza nei tempi e nell’erogazione delle risorse finanziarie» spiega Marco Nicolai, presidente del consiglio di gestione di Finlombarda, società finanziaria della Regione Lombardia per i progetti di sviluppo del territorio. Delle 390 opere elencate nel Programma delle Infrastrutture strategiche per un valore di 367 miliardi di euro, solo 186 sono state deliberate, con una disponibilità finanziaria di 75,6 miliardi. «Se poi si guarda allo stato di attuazione – continua Nicolai – solo 30 opere per 4,5 miliardi risultano ultimate». Non è solo questo il problema: il rapporto tra gare bandite e gare effettivamente aggiudicate è del 53%. «Vuol dire che quasi metà dei progetti che parte, poi si perde». Il tasso di mortalità delle opere è elevatissimo, insomma, e forse è a questo che sta pensando il governo prima di lanciare nuovi maxi-progetti destinati a rimanere sulla carta. Potrebbe essere arrivata l’ora del realismo, dunque? A ciò si riferisce Palazzo Chigi, quando dice di voler dare priorità anche ai mini-progetti? «Ci sono senz’altro segnali positivi sulla riformulazione delle priorità – osserva Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente –. Il piano Barca sulla Napoli-Bari, ad esempio, è finalmente qualcosa per il Mezzogiorno. Ma resta un grave errore mettere soldi pubblici sulle autostrade, quando invece andrebbero spostate risorse sulle città e sulla mobilità urbana». Più in generale, la svolta che il mondo ecologista chiede a Monti e a Passera è quella di «uscire dalla logica della Legge Obiettivo. Perché ad esempio nessuno parla dei treni pendolari? – si chiede Zanchini –. Ogni giorno tre milioni di persone si spostano su mezzi sempre più vecchi, più pieni e più in ritardo».

Per Nicolai, qualsiasi discorso di sviluppo infrastrutturale non può essere disgiunto dall’attuale trend economico. «I problemi sono due: il blocco nei pagamenti alle imprese da parte della pubblica amministrazione e lo stop al <+corsivo>project financing<+tondo>». Da qualche mese a questa parte, la situazione di recessione ha proiettato un’ombra sinistra sui cantieri aperti in mezza Italia. «Eravamo preoccupati all’inizio del 2011, figurarsi oggi» aggiunge Nicolai. Nel secondo semestre dell’anno scorso, i tempi medi di pagamento dei lavori pubblici hanno raggiunto gli 8 mesi, circa un mese e mezzo in più rispetto al primo semestre.

«La logica di progetto va bene, ma i progetti a un certo punto vanno fatti. Punto e stop. Anche perché i privati, se ci sono appalti da prendere, in questa fase li prendono e basta. Certo, in cambio vorrebbero un minimo di garanzie da parte pubblica». Resta il fatto che su 253 miliardi di interventi realizzati in Europa attraverso la formula mista pubblico-privato, l’Italia rappresenta solo il 3% contro il 53% del Regno Unito, il 12% della Spagna e il 5% della Francia. Ecco perché le opere infrastrutturali, piccole e grandi, spesso rimangono solo sulla carta.

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