mercoledì 13 settembre 2017
Anche un’ascensione può diventare un viaggio dentro noi stessi e un modo per accostare la grande bellezza delle vette. Con passo lieve e in stupito silenzio
Il Parco del Gran Paradiso

Il Parco del Gran Paradiso

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La montagna è una grande maestra di vita. Coloro che ci hanno guidato in gioventù a conoscerla, laici e preti, ci hanno insegnato
ad amarla e a rispettarla. E anche a saperla ascoltare. Ma la montagna parla se noi siamo capaci di rimanere in silenzio. Se smettiamo il nostro rumore. Se oggi riusciamo a rinunciare ai nostri dispositivi elettronici. Se, almeno per qualche attimo, siamo in grado di comprendere che non siamo il centro del mondo.

Scrivo queste note con ancora negli occhi e nel cuore le emozioni vissute agli inizi di agosto per la salita fino ai 4.061 metri della cima del Gran Paradiso, sulle Alpi Graie, l'unico quattromila interamente italiano. Certo, i maestri della nostra adolescenza - io ho in mente soprattutto alcuni sacerdoti - non avrebbero immaginato che un giorno ci saremmo incamminati sui ghiacciai, a quelle quote, senza di loro e senza guida alpina. Ma di strada da allora ne abbiamo percorsa e il libro delle vette e dei rifugi è ormai un'antologia stracolma di timbri e di date da imprimere nella memoria.

Dalla Romagna fino alla Valsavarenche, in Valle d'Aosta, il viaggio è lungo. Sono quasi 600 i chilometri da percorrere in auto prima di arrivare a Pont, dove la strada finisce e si entra in un'altra dimensione. Già la piccola valle disegnata dall'acqua che scende in più letti a tratti violenta è un quadro d'altri tempi. Qui i papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, nel borgo di Introd, trascorsero periodi di vacanza, nell'armonia di un creato che appare ancora incontaminato.

Zaino in spalla, ci si mette in cammino per la prima tappa, il rifugio Vittorio Emanuele II. Le tabelle indicano due ore e mezzo di tempo necessario per arrivare ai 2.732 metri di altitudine. Fa caldo, in questa estate torrida, anche ai 1.900 metri di Pont. Si sale in calzoni corti e maglietta. I battiti del cuore sono subito alti, lungo i tornanti che ben presto abbandonano la vegetazione.

Lo sguardo inizia a spaziare, mentre si sale a passo svelto. Lo scenario è grandioso, come ogni volta che si va sulle Occidentali.
Il rifugio è un'oasi nella grande montagna. C'è un notevole fermento di alpinisti, in gran parte intenti a preparare i materiali per l'ascesa della mattina successiva. In sala da pranzo un cartello attira la mia attenzione. «Non abbiamo il wifi. Parlate tra di voi», è l'invito esplicito di chi con apprezzata gentilezza governa questo luogo così prezioso per chi ama le vette. È bello ritrovarsi con i nuovi compagni e conoscersi ancora meglio prima di legarsi in cordata.

La notte è brevissima. La sveglia è puntata sulle 3,40, ma ci si alza prima per anticipare il più possibile la partenza. Tutti sanno
del grande caldo e dei rischi nel percorrere il ghiacciaio con le temperature di questa estate inusuale. Il gestore ha raccomandato un nuovo percorso, più largo, sulla cresta di una morena, visto l'arretramento delle nevi perenni.

Alle 4,40 si parte grazie alle lampade frontali. Il silenzio è prezioso. Il cielo è stellato. Durante la notte è spirato un forte vento che ha spazzato via le nubi e il pericolo del brutto tempo. La salita non dà mai tregua, ma è sempre suggestivo progredire verso l'alto, in attesa del primo lembo di neve. Mi lego subito dietro ad Augusto, fino a un mese fa primario di pediatria ed esperto alpinista. Con noi ci sono suo figlio Luca e il suo socio di una vita spesa in montagna, il prof in pensione Diego. Da soli non si va da nessuna parte, è il primo pensiero che mi viene vedendo a decine le cordate lungo una traccia ben disegnata. Aggiriamo crepacci enormi. Ne saltiamo alcuni. Su altri sono stati creati dei ponti di neve. Ci fidiamo. I passi sono felpati, ma sicuri. Il silenzio avvolge
un'immensità travolgente. Ogni tanto un vento gelido sferza mani e guance.

Quasi non si riesce a parlare per il freddo. Si alzano le pendenze e si incrementano le frequenze cardiache. Aumenta il desiderio di arrivare in cima. La neve si scioglie sotto i ramponi che rendono sicura la presa sul ghiaccio vivo. La fatica nulla toglie all'immensità del momento, unico, straordinario, da godere con tutto se stessi. Ormai in vista della Madonnina posta sulla cima, il cuore è a mille per l'emozione. Il pensiero corre a chi è rimasto a casa, a quanti vorrebbero essere in nostra compagnia.

Poi sgorga una preghiera: «Padre nostro che sei nei cieli... Noi siamo qui sul Gran Paradiso, dove tutto è straordinariamente meraviglioso». Sono capace solo di esprimere il mio grazie. Mi dico anche che non possiamo sciupare questo dono così prezioso. Spero che chi deve capire possa davvero comprendere. Oggi anche la montagna soffre e piange. E lo esprime con voce chiara. Siamo in grado di ascoltarla? Basterebbe salire a piedi, in quota, in religioso e stupito silenzio.

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