venerdì 6 maggio 2016
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ROMA Stupore, sconcerto, paura: a Palazzo Chigi si respira un clima surreale. Matteo Renzi deve gestire una giornata con ospiti d’onore come la cancelliera Merkel e i vertici dell’Ue, mentre i notiziari danno conto di uno scontro istituzionale durissimo. Il presidente del Consiglio si consulta con i vertici delle istituzioni. Anche il capo dello Stato non nasconde la sua preoccupazione. E insieme concordano di non alimentare l’incendio. Ai sospetti di una giustizia a orologeria si somma ora la quasi certezza di un piano contro la riforma costituzionale. I fedelissimi del premier sono sul piede di guerra, ma il capo dell’esecutivo frena. La tensione è alle stelle. «Non si può ricoprire un ruolo istituzionale e parlare così», concordano nello staff renziano. Ma la realtà è che tutto era già chiaro con la nomina di Davigo: «È stato quello il segnale della chiamata alle armi», sospirano i fedelissimi. «A rischio è la democrazia», si sfogano. Il premier è già sotto i riflettori internazionali e tira dritto. Per lunedì ha convocato la Direzione del partito, dove intende galvanizzare tutti, in vista delle amministrative che si preannunciano difficilissime. Ogni inchiesta che arriva alla ribalta sono voti persi. E di certo ne arrivano fin troppe tutte insieme. Anzi, il segretario dem teme che altre saranno portate agli onori della cronaca prima di giugno. Ormai è una resa dei conti. Così viene interpretato l’ennesimo colpo al sindaco di Lodi, per il quale, in attesa della decisione di oggi del gip, ieri il pm si è opposto alla scarcerazione. Uggetti, concordano a Largo del Nazareno, «sconta il fatto di essere sindaco nella città dove è stato sindaco Guerini», dicono riferendosi al vicesegretario dem. Un altro modo per colpire il vertice del Pd, insomma. Di fatto, però, resta il referendum costituzionale di ottobre l’obiettivo più o meno dichiarato nelle dichiarazioni di Morosini di ieri. Per Renzi sarà una sfida grande, che potrebbe anche rivelarsi un boomerang per chi gliela sta lanciando. Ma con una guerra in atto ormai così palese, non è il caso di spezzare la corda. E allora a farne le spese potrebbe essere la riforma del processo penale all’esame del Senato, sui quali il Pd non trova alleati: Ap, perché su posizioni diverse; M5S perché considerati poco affidabili. Così il 'pacchetto' su cui i giudici hanno gli occhi puntati potrebbe venire congelato in attesa del voto referendario. In questo quadro, la sinistra del Pd non infierisce. Però stigmatizza l’inopportunità degli incontri con Verdini «con quel medagliere giudiziario. Io sono pure garantista – spiega il leader della sinistra dem Roberto Speranza –, ma è come affidare le pecore al lupo...». In questa fase più che mai «i cittadini chiedono sobrietà e trasparenza », mentre le vicende che emergono non sono un segnale positivo a ridosso delle elezioni. Di certo l’opposizione interna ottiene da Renzi che si metta la testa sulle amministrative, considerando il referendum il passo successivo, visto che finora il premier-segretario aveva privilegiato il secondo e tralasciato le prime. Ma la riunione di lunedì servirà soprattutto a serrare i ranghi e posizionare le truppe. Che per ora sembrano spiazzate da quanto sta accadendo. In modo particolare dalla «mancanza di una strategia politica di lungo corso sulla giustizia», vociferano i senatori del gruppo dem. «Non si vede la mossa del cavallo», e non si capisce dove si voglia andare con le riforme del sistema giudiziario. Perché se è vero che servono processi più rapidi, non si può negare che occorre, secondo molti parlamentari democratici, «meno promiscuità tra la politica e l’economia». © RIPRODUZIONE RISERVATA
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