Fine vita e un divieto che perdura. La cura resta il vero diritto
mercoledì 24 gennaio 2024

Ai fautori del suicidio assistito non è bastato che la sentenza 242 del 2019 della Corte costituzionale abbia esonerato dalla pena del carcere da cinque a dodici anni chi aiuta un altro a togliersi la vita nei casi specifici in cui ricorrono circostanze eccezionali. Eccezionali nel senso che, di default, l’aiuto al suicidio è un crimine e resta un crimine presidiato dall’art. 580 del Codice penale. Che sia assurdo cancellarlo è già stato detto in quella sentenza, con ragioni che appaiono definitive, per l’ambito che la Corte definì «ad altissima sensibilità etico-sociale e rispetto al quale vanno con fermezza preclusi tutti i possibili abusi». Il perché è stato spiegato chiaro: per il «diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili», che attraversano difficoltà e sofferenze. E poi per «scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere».

L’eccezione, dunque, è una feritoia stretta ritagliata dentro un divieto che perdura. Le condizioni sono note: la malattia irreversibile e le sofferenze intollerabili di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, ma capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Non c’è scritto che l’assistenza mortale è una cosa buona, ma semplicemente che non sarà punita in questo caso specifico. In ogni altro caso, delitto e castigo non mutano.

Le cronache di questi giorni raccontano che i fautori del suicidio assistito sono protagonisti di un nuovo processo penale, a Firenze, per un aiuto al suicidio di un malato non dipendente da trattamenti di sostegno vitale, in presenza delle altre tre condizioni. Il giudice di quel processo, il Gip di Firenze, ha rimesso gli atti alla Corte costituzionale perché giudichi se la breccia praticata nel 2019 nell’art. 580 sia troppo stretta, lasciando ancora illegittima la norma, finché non venga dilatata al nuovo caso.

Ci pare di intuire che l’autodenuncia dei noti “aiutanti” di area radicale, il timore di una archiviazione (chiesta proprio dal Pubblico ministero) che avrebbe tolto la vicenda di torno, il giubilo per la nuova tappa che secondo loro riporta in barella l’art. 580 nella sala operatoria della Consulta per qualche nuova amputazione, ecco, ci pare di intuire che tutto ciò rientri per loro in un progetto a scalini, uno sfogliare la margherita un petalo alla volta, fino al traguardo di un libero suicidio sanitarizzato, e all’abrogazione parziale di un’altra norma ancora, quella sull’omicidio del consenziente, già cercata in una proposta referendaria bocciata dalla Consulta.

Su come finirà non facciamo pronostici. Ma l’atmosfera che circonda questi temi di vita e di fine vita trasuda alcuni umori che impensieriscono già sul versante della coerenza giuridica, prima che su quello della responsabilità morale. Le leggi non sono fatte di plastilina; le norme penali, poi, quelle che di solito cominciano con “chiunque…” sono generali, e l’eventuale ventaglio casistico ha bisogno di definizioni tassative. Quando la Corte d’appello di Milano pose alla Consulta il quesito se l’incriminazione dell’aiuto al suicidio senza istigazione fosse contraria alla Costituzione, il responso avrebbe potuto essere un giudizio secco di inammissibilità perché, se la Consulta può autorevolmente ritenere che una norma penale non si adatti esattamente a “chiunque” e sempre, non spettava a lei fare il catalogo dei suicidi aiutabili e dei suicidi non aiutabili. E non lo fece, infatti. Tenne in sospeso per un anno la decisione con l’ordinanza 207 del 2018 mettendo in mora il Parlamento. E ponendo in chiaro così quali erano le competenze rispettive. Poi sentenziò, supplendo all’inerzia di quello e in pratica riformò l’art. 580 collocandovi intorno una costellazione di regole a puntello.

Ora, la nuova puntata riapre il capitolo, già singolare, della possibile manipolazione ulteriore, o del rigetto nel merito. C’è un nucleo argomentativo della prima sentenza che pesa in modo determinante. È il pilastro di quella decisione, l’ago della bilancia che ha convinto i decidenti a quel taglio specifico. Sta scritto là dove si allinea la condizione del suicida a quella del malato che dice basta alle terapie di sostegno vitale. Una differenza fra due figure di morte: rapida la prima, più lenta la seconda a macchine staccate e rifiutate e sedazione palliativa profonda. Così l’esimente per chi aiuta il suicida si innesta in una decisione di morte alterna, a far breve il commiato.

Sembra evidente che, se questa è la ragione decisiva sulla quale poggia la precedente sentenza della Corte, chiedere che venga meno il presupposto significa stravolgere l’intero impianto. Anzi c’è un assurdo persino grottesco, se si sostiene che a fare una regola che violerebbe gli articoli 2,3,13,32 e 117 della Costituzione è stata proprio la Corte costituzionale.

Resta un ultimo quesito sociale: perché tanto attivismo ossessivo verso il suicidio, e tanta inerzia verso la cura, la cura delle persone sofferenti nel corpo e nello spirito, in solidale fraternità?




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