martedì 11 gennaio 2022
Il colosso farmaceutico ha anche chiesto all'Ema l'autorizzazione alla sua pillola antiCovid Paxlovid. La decisione nelle prossime settimane
Vaccinazioni in occasione del primo Junior Open day del Lazio dedicato ai ragazzi tra i tra i 12 e i 16 anni, a Rieti

Vaccinazioni in occasione del primo Junior Open day del Lazio dedicato ai ragazzi tra i tra i 12 e i 16 anni, a Rieti - Ansa

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Il vaccino Pfizer specifico per la variante Omicron sarà pronto entro marzo. Lo ha annunciato alla Cnbc Albert Bourla, amministratore delegato del colosso farmaceutico Usa, osservando che il vaccino colpirà anche altre varianti in circolazione. «La speranza è riuscire a ottenere un prodotto che avrà una protezione migliore in particolare contro l’infezione, perché la protezione contro i ricoveri e la malattia grave è ragionevole in questo momento, con i vaccini attualmente a disposizione, finché si ha la terza dose», ha aggiunto Bourla. La stessa azienda ha chiesto all’ente europeo del farmaco, l’Ema, di autorizzare l’antivirale orale Paxlovid. Il risultato è atteso nelle prossime settimane.

Intanto, uno studio dell’Imperial College di Londra pubblicato da Nature Communications, evidenzia che i linfociti T, sviluppati a seguito del comune raffreddore, sono in grado di riconoscere il Sars-CoV-2 e proteggere dall’infezione. Ciò avviene perché questi speciali "soldati" del nostro sistema immunitario non sono indirizzati contro la proteina Spike del virus, ma contro proteine più interne e meno soggette a mutazioni che, per queste caratteristiche, potrebbero in futuro diventare il bersaglio di una nuova generazione di vaccini. I ricercatori, tuttavia, mettono in guardia dai malintesi: «Sebbene questa sia una scoperta importante, sottolineo che nessuno dovrebbe fare affidamento solo su questa protezione», dice la prima firmataria dello studio Rhia Kundu. «Il modo migliore per proteggersi dal Covid-19 è essere completamente vaccinati, compresa la dose di richiamo». Dall’inizio della pandemia è stato chiaro che alcune persone avessero una maggiore capacità di resistere all’infezione. «Eravamo ansiosi di capire perché», spiega Kundu. I ricercatori hanno analizzato i campioni di sangue di 52 persone che, nella prima fase, erano stati esposti al virus perché contatti diretti di persone che si erano ammalate di Covid: nei 26 che, nonostante l’esposizione intensa al virus, non avevano contatto l’infezione, erano presenti livelli più alti di linfociti T capaci di riconoscere il virus.

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