mercoledì 14 marzo 2018
La vittoria dei «no» il 12 e 13 maggio non scoraggia i cattolici per il «sì». La Chiesa invita a spendersi nella società
Alle urne: nel referendum abrogativo  sul divorzio vince il no, con il 59,26% (Ansa)

Alle urne: nel referendum abrogativo sul divorzio vince il no, con il 59,26% (Ansa)

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Il titolo è asciutto, quattro parole appena: «Hanno prevalso i no». È il 14 maggio 1974, il referendum sul divorzio s’è appena consumato e la sensazione è che non ci si voglia perdere in recriminazioni, per cambiare invece subito pagina. Scrive il direttore Angelo Narducci («Impegnarsi a fondo per la famiglia»): «L’attuale legge sul divorzio resta nel nostro ordinamento, ma proprio per questo si fa più urgente la necessità di guardare con amore alla famiglia, ai coniugi, ai figli». Il tono è positivo: «Guardare con amore...». Narducci chiama subito all’impegno culturale e pastorale: «Si fa pressante per i credenti il dovere di dedicare alle nuove coppie e alle giovani generazioni un’attenzione non episodica (...). Attenzione non minore dovrà essere dedicata ai modelli culturali che ci vengono quotidianamente forniti, senza che si sia saputo contrastarli efficacemente, in termini creativi, cioè, e non con pure misure di contenimento». L’impegno per la famiglia, conclude Narducci, è appena cominciato: «La campagna elettorale e il referendum hanno fatto porre impetuosamente in primo piano i problemi della famiglia. Non è davvero il caso di dimenticarli. Dipende da ognuno di noi che questa occasione diventi anch’essa un’occasione di grazia».

Il giorno dopo, il comunicato della Cei si pone sulla stessa lunghezza d’onda, positiva, di chi non si volta indietro per recriminare e guarda avanti propositivamente: «I vescovi fanno appello a tutti i credenti, tutte le comunità e specialmente a tutte le famiglie cristiane, perché con l’azione educativa e con l’esempio della loro vita, rinsaldino dall’interno l’istituto matrimoniale e familiare, che "è veramente fondamento della società"». Da lì in poi, la sconfitta abbandona la prima pagina.

Ma come si arriva al referendum? La sensazione è quella di una sconfitta annunciata. Almeno su Avvenire, nessun clima da crociata e toni composti. Ma che una parte sensibile del mondo cattolico si avvii titubante all’appuntamento è palpabile. Prendiamo le Acli. L’esecutivo scrive una nota in prima pagina il 15 gennaio. Le Acli sono contrarie al divorzio, riconoscono la legittimità del referendum, ma temono che esso diventi «un’occasione di conflitto radicalizzato tale da introdurre nel quadro della convivenza civile nuovi elementi di lacerazione, oltre a prestarsi (...) a manovre politiche pericolose per le sorti stesse delle istituzioni democratiche».

Che stava accadendo? La Dc, guidata da Amintore Fanfani, è sola, con la scomoda compagnia del Msi. Tanti titoli tradiscono i timori: «La Dc chiede un referendum senza drammi» (19 gennaio); «La Cei non vuole crociate» (dichiarazioni del segretario aggiunto Bonicelli, 26 gennaio); «La Dc: no al divorzio. Fanfani auspica che il referendum si svolga senza traumi e non venga strumentalizzato dalle destre» (10 febbraio); «Fanfani: il referendum non deve causare traumi politici» (20 marzo); «Fanfani per un confronto civile e contro ogni crociata» (23 marzo); «Nessun secondo fine. No alle strumentalizzazioni del Msi e alle svolte politiche del Pci» (9 aprile); e ancora: «Rifiutare ogni integralismo» (13 aprile).

Gli argomenti di Avvenire sono laici e razionali, come nel commento di Vittorio Bachelet del 28 aprile: «In definitiva si tratta di abrogare o no la legge a seconda che si è convinti o no che questa legge aumenterà o diminuirà, nel complesso, le sofferenze della famiglie italiane». Bachelet scrive anche l’11 maggio (il titolo dice tutto: «Mi avvicino al voto con gioia e con sofferenza»): «Il mio voto sarà sì anche se so che votando sì mi faccio carico, davanti a Dio e davanti agli uomini, della sofferenza di alcuni fratelli; ma mi sono convinto che votando no contribuirei a moltiplicare quelle sofferenze». Toni analoghi nell’appello per il voto («Decisione storica») di Mario Agnes, presidente dell’Azione cattolica italiana (12 maggio), che è sintetizzato in questa frase: «Un gesto democratico per la difesa dei deboli». Ed eccoli, i deboli: due bambini, di spalle, che si tengono per mano in un bosco: «Pensiamo a loro» è la didascalia, e il titolo: «Sì per la famiglia unita».

Tutto prevedibile? Non proprio. Sfogliando l’inserto Avvenire 7 di quel 12 maggio troviamo un’inchiesta di Pierluigi Ronchetti sui giovani, «i più interessati al problema ma esclusi dal referendum: sono liberi di sposarsi ma non di votare». Sommario: «Da tempo dorme alla Camera un progetto di legge per concedere il diritto di voto ai diciottenni: era questa l’occasione buona per portarlo in porto». L’analisi è acuta: «La società si interessa ai giovani solo nella misura in cui formano un mercato estremamente dinamico; in altre parole, stando bene attenti alle loro esigenze e ai loro umori si possono fare ottimi guadagni. Il resto no, non è roba per loro». Al mercato piacciono i giovani. E non dispiace neanche il divorzio.

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