venerdì 13 settembre 2019
Per il presidente di Scienza & Vita «meglio una legge di un verdetto che potrebbe giustificare sentenze senza freni»
Il giurista: «Da scongiurare la giurisprudenza creativa»
COMMENTA E CONDIVIDI

«Meglio una legge brutta che una sentenza della Consulta». Alberto Gambino non ha dubbi: per il giurista, prorettore dell’Università europea di Roma e presidente nazionale di Scienza & Vita, su eutanasia e suicidio assistito il Parlamento deve intervenire al più presto. Certamente prima del 24 settembre, limite massimo dato dalla Corte alle Camere per correggere l’attuale articolo 580 del Codice penale. Un raggio troppo ampio, per la Consulta, che nell’ordinanza 207 dello scorso ottobre ha invitato il Parlamento a prevedere un’esimente da applicarsi in situazioni limite, caratterizzate da malati con patologia irreversibile, fonte di sofferenze giudicate intollerabili, tenuti in vita attraverso macchinari, ma ancora in grado di decidere liberamente.

Ora il tempo sta per scadere, e una sola cosa è certa: se non deciderà il Parlamento, provvederà la Consulta. «Ma una legge si può cambiare – spiega Gambino –, una sentenza della Corte no». Come a dire: se è il Parlamento a sdoganare l’eutanasia, un domani si potrà correre ai ripari. Se lo fanno i giudici costituzionali, invece, nessuna norma potrà poi chiudere la falla. Per la verità, le Camere avevano tentato di delineare una disciplina. In un primo momento, però, le proposte di legge erano tutte orientate verso il pendio dell’eutanasia. Poi però qualcosa era cambiato: alcuni esponenti della Lega avevano depositato un testo che riduceva la pena – senza rimuoverla – per gli stretti congiunti di un malato grave che avessero prestato assistenza al suo suicidio. Aperta la via, testi simili erano poi giunti anche dal Pd».

A quel punto – ricorda Gambino – «i 5 Stelle hanno impedito la prosecuzione dei lavori». Per la verità, «la lega avrebbe potuto calendarizzare la discussione ma ha de- ciso di lasciar perdere». Non tutto però è perduto. Il giurista spiega che «la Conferenza dei capigruppo di Montecitorio e Palazzo Madama potrebbe decidere di riaprire il dossier, immaginare una calendarizzazione, riferirla ai presidenti delle Camere e far sì che questi chiedano alla Consulta un differimento dell’udienza prevista il 24 settembre».

Addirittura, se «anche solo informalmente i gruppi parlamentari facessero sapere di essere pronti a discutere, un rinvio alla Consulta potrebbe essere chiesto dall’Avvocatura dello Stato», l’organo che rappresenta il presidente del Consiglio dei ministri e che interviene in Consulta a difesa delle leggi. Se ciò non accadesse, «bisogna aspettarsi una sentenza della Corte in sintonia con l’ordinanza del 2018», con il rischio che – in difetto di una compiuta disciplina normativa, dettabile solo dal Parlamento – i giudici territoriali allarghino le maglie della pronuncia costituzionale, aprendo sui vari casi specifici un nuovo filone di giurisprudenza creativa».

Che certamente non andrebbe nella direzione della certezza della legge, principio cardine del nostro ordinamento. Un precedente già esiste: la sentenza 96 del 2015, con cui la Consulta aveva ammesso alla procreazione medicalmente assistita – con possibilità di selezionare quali embrioni impiantare nel grembo materno e quali no – anche le coppie affette da patologie ereditarie ma non sterili. La Corte, proprio per evitare vuoti di tutela nel diritto a nascere del concepito, aveva incaricato il Parlamento di stabilire quali strutture potessero operare la selezione, e soprattutto in presenza di quali patologie. Allora però non fu dato alcun termine, e il Parlamento non ha mai affrontato la questione.

Così ora il numero degli embrioni congelati è aumentato a dismisura. Gambino ora però è fiducioso: «Qualche segnale c’è, le Camere potrebbero ancora farcela».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI