martedì 12 luglio 2022
Le riviste specializzate in tempi di pandemia hanno sdoganato la diffusione delle ricerche senza il controllo dei "pari". Può essere un abbassamento della qualità. Ma per qualcuno serve a salvare vite
Ecco come i "preprint" stanno cambiando la scienza medica. Ma è davvero un bene?
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La perdurante pandemia di Covid-19, tra una ondata di sottotipi virali e l’altra, continua ad agitare il mondo dell’editoria scientifica: saranno effetti che andranno a scemare nel tempo o qualcuno di essi rimarrà strutturalmente in questo mondo ora aulico ora molto competitivo, fatto di riviste sottoposte a dura peer-review ma anche a non rarissime contestazioni di dati o addirittura smentite pubblicate dagli stessi autori originari? La novità più originale (anche se ebbe antecedenti, ma ben meno massicci) è quella che riguarda la politica dei preprint la cui pubblicazione è, prevedibilmente, cresciuta in maniera esponenziale in questi ultimi tempi. Sir Peter Horby, noto esperto di salute globale di Oxford, si è di recente espresso decisamente a loro favore sulla prestigiosa Nature Medicine, segno di tempi (mutati).​

Infatti, in nome dell’emergenza sanitaria e dunque della tempestiva, immediata (ma non filtrata) messa a disposizione in rete per chiunque fosse interessato, dai primi mesi della pandemica sono stati resi massicciamente disponibili in tempo reale tutti gli articoli ancora in attesa di adeguato giudizio da parte di competenti revisori (un articolo ricevuto da una rivista scientifica di solito è inviato anonimo ad almeno due scienziati esperti del campo perché lo valutino e propongano correzioni). Senza filtri, insomma, e in nome del fatto che qualsiasi possibile nuovo rimedio alla mortale epidemia andasse immediatamente reso noto, si rinunciava al filtro consueto (e importante) degli esperti.

Il rischio è che questa procedura super-accelerata, sulla quale giornalisti scientifici non abbastanza preparati si gettano avidamente riempiendo i media di risultati magari deboli o di elucubrazioni eccessivamente fantasiose, porti confusione ed errori. Cosa che è certamente accaduta. Ne scrisse con acutezza, Enrico Bucci su Il Foglio, quasi un unicum nel panorama mediatico nazionale, spesso frettoloso e abborracciato.

Eppure, secondo il breve intervento di Horby apparso proprio in questi giorni su Nature Medicine, sembra che la comunicazione rapida dei risultati dei trial clinici durante la pandemia, divenuta quasi un new normal, abbia contribuito a salvare vite e dunque che, in ultima analisi, i preprints possano essere "utili per i pazienti". Purché ovviamente si affinino in maniera significativa le capacità critiche di tutti coloro che ne fruiscono.

Altra tendenza in atto. Anche la protervia di qualche autore nell’insistere a inviare contemporaneamente a più riviste il medesimo articolo (multiple submission, in nome del “la prima che me lo accetta e pubblica, sarà la migliore”), sempre in nome della fretta editoriale (in media passa infatti almeno qualche settimana per raccogliere i pareri dei revisori) è riemersa virulenta. In nome del principio “i dati clinici sono davvero impellenti, salvano vite” si sferrava un altro colpo a una tradizione consolidata di filtro editoriale.

Ulteriore tema che con la pandemia si è riacceso, ma in realtà di valenza ben superiore, diremmo quasi “storica”, riguarda la tradizionale difficoltà che i ricercatori tutti incontrano nel pubblicare “risultati negativi”, nonostante esistano alcune riviste dedicate. Di solito infatti quando una ipotesi non trova conferma sperimentale o epidemiologica, la sua pubblica utilità è molto bassa, talora quasi inesistente. Ma c’è il rischio che qualche altro gruppo di ricercatori ripeterà lo stesso esperimento o osservazione, con spreco di tempo, e risorse umane ed economiche. Ecco quindi l’importanza di diffondere i risultati negativi.

L’editoria scientifica gioca un ruolo potente, tanto euristico-conoscitivo che lugubremente economico. Tenerla d’occhio è un dovere tecnico e non solo. Anche morale.

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