sabato 11 febbraio 2017
Lo Stato deve ancora saldare i debiti del 2012. L'accusa delle associazioni: i fondi ci sono, ma mancano le firme dei funzionari
Contributi pubblici in ritardo. Chiudono i giornali degli esuli
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«Abbiamo nel cassetto i nuovi progetti, ma ci è impossibile affrontarli: le nostre casse sono vuote a causa dei ritardi dello Stato a saldare i debiti per lavori completati da anni». L’amara lettera arrivata nelle case degli esuli dalmati a firma del loro sindaco di "Zara in esilio", Franco Luxardo (l’industriale della nota marca di liquori), ricalca la situazione kafkiana di tutte le associazioni degli esuli istriani-fiumani-dalmati: lo Stato, che con una mano celebra il Giorno del Ricordo per le Foibe e l’Esodo dei 350mila italiani fuggiti dagli eccidi di Tito nel dopoguerra, con l’altra mano li porta a lenta agonia.

Questi i fatti: la legge 72 del 2001 fu varata per garantire la salvaguardia del patrimonio culturale e memoriale degli esuli, piccoli contributi pubblici, ma vitali per associazioni che fino ad allora si erano rette per decenni sulla generosità di centinaia di migliaia di esuli, il cui numero però con il tempo si è drasticamente ridotto. Funziona così: le associazioni (una ventina) presentano precisi progetti con preventivi e finalità (edizione di libri, convegni, concorsi scolastici, diffusione dei periodici) i progetti vengono vagliati e, se approvati, ricevono l’ok. Ma non i soldi, che arriveranno a posteriori, una volta spesi. Un ingranaggio dunque basato sulla correttezza e regolarità delle entrate. Peccato però che dal 2009 (siamo nel 2017!) nonostante continui annunci, i ministeri dei Beni Culturali e degli Esteri, dai quali dipende l’applicazione della legge 72, hanno onorato l’impegno con ritardi ingestibili. Il 2012 è ancora da saldare, ma le associazioni quei soldi li hanno spesi, indebitandosi a loro volta, man mano purtroppo licenziando.

«Il paradosso è che quei fondi ci sono, sono stanziati – spiega il presidente di Federesuli, Antonio Ballarin – ma il funzionario che deve apporre la firma non lo fa. Anzi, vari funzionari, vista la mole di lavoro nell’analisi delle rendicontazioni di anni, si sono dimessi e ogni volta quello nuovo deve ricominciare da capo». Il tutto in un imbarazzato silenzio dei governi che si sono succeduti dal 2009. «Con quale stato d’animo celebriamo il Giorno del Ricordo?», commenta Manuele Braico, presidente dell’Associazione delle Comunità istriane, «i nostri giornali muoiono per asfissia». Ormai stanno chiudendo tutte le testate, attese invano da decine di migliaia di lettori nel mondo, laddove la diaspora li ha dispersi: "L’Arena di Pola", "Il Dalmata", La Voce di Fiume" e "La Nuova Voce" in particolare. Giornali nati con l’esodo ("L’Arena di Pola" esce dal 1945!) e fondamentali per mantenere unita un’identità dall’Australia, al Canada al Sudafrica. «Noi siamo sempre stati onesti e disciplinati – nota Guido Brazzoduro, sindaco di "Fiume in esilio" – e vogliamo salvare la nostra dignità: stanno arrivando le prime denunce per mancati pagamenti da tipografie e fornitori».

Di «operazione eutanasica» parla Dario Fertilio, ex giornalista del "Corriere della Sera" e oggi direttore del "Dalmata", mentre Tullio Canevari, sindaco di "Pola in esilio", denuncia le montagne di rendicontazione supplementare richieste. I giornali sono corsi ai ripari rinunciando alla stampa e uscendo sul web, ma solo una minima parte degli esuli, spesso anziani, ha accesso alla Rete e quindi pochissimi sono raggiunti da quella informazione che per tutta una vita li ha accompagnati. «Finora abbiamo tirato avanti grazie alle elargizioni dei singoli e ai… necrologi», è la kafkiana annotazione di Paolo Radivo, direttore dell’"Arena di Pola". Ma intanto le iscrizioni al Libero Comune di Pola in Esilio diminuiscono proprio perché il giornale non arriva più nelle case.

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