giovedì 19 dicembre 2019
Conte smina i rischi per il governo. La legge era stata approvata con largo consenso pochi mesi fa.
Ci sono i numeri per il referendum

Ansa

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Hanno vinto la loro sfida e hanno ottenuto il referendum sul taglio del numero dei parlamentari. Si sono riuniti ieri a Roma, presso la Fondazione Einaudi, per annunciare il raggiungimento delle 64 firme al Senato, i tre parlamentari che sin dall’inizio hanno combattuto perché dopo le Camere parlassero anche i cittadini.

Si tratta dei forzisti Nazario Pagano e Andrea Cangini e dell’esponente del Pd Tommaso Nannicini, ieri supportati da Giuseppe Benedetto e Davide Giacalone, rispettivamente presidente e vicepresidente della fondazione intitolata al leader liberale, padre costituente e secondo presidente della Repubblica, Luigi Einaudi. Il referendum sul taglio del numero dei parlamentari (da 945 a 600) «è un fatto positivo in sé», perché permetterà un dibattito pubblico che finora non c’è stato, dicono i tre senatori proponenti. «Ci hanno presi per matti – calca la mano Benedetto –. Ora stiamo a vedere: sappiamo com’è andata nel 2006 e 2016». In effetti, è un referendum che presenta molteplici insidie.


Voto (senza quorum) tra aprile e giugno
I senatori che hanno chiesto il referendum hanno tempo sino al 12 gennaio (tre mesi dall’ultimo voto della riforma costituzionale) per depositare le firme in Cassazione. Poi la Suprema Corte ha 30 giorni per decidere sulla ammissibilità e passare la palla al governo. Che ha 60 giorni per indire il referendum, le urne si aprono tra i 50 e i 70 giorni dal decreto d’indizione. Il voto potrebbe quindi svolgersi tra aprile e giugno. Si dovrà dire «sì» o «no» alla riforma che riduce da 945 a 600 il numero dei parlamentari (i senatori scenderebbero da 315 a 200, i deputati da 630 a 400). Non c’è quorum.

La prima è di ordine politico a breve termine. In pratica ora il taglio dei parlamentari entra in stand-by. Se si votasse nei primi mesi del 2020, lo si dovrebbe fare con l’attuale composizione del Parlamento (630 deputati e 315 senatori). E anche il dibattito sulla legge elettorale segna uno stop, perché nei fatti l’intera partita dei collegi viene congelata (oggi la maggioranza avrà incontri separati con le forze di opposizione, si continuerà a lavorare sul proporzionale con soglia di sbarramento al 5%, ma l’arrivo del referendum cambia le carte in tavola). Uno stallo in cui potrebbero avere carte da giocare quei partiti che hanno interesse alle elezioni anticipate. Lega e Fratelli d’Italia, che potenzialmente alle prossime elezioni potrebbero avere compagini parlamentari molto più consistenti.

Ma i due partiti 'sovranisti' avrebbero bisogno di un aiuto da almeno una delle forze di maggioranza. Dal Pd, se prevalesse l’area che malsopporta l’esecutivo con i 5s. O da Italia viva, che rispetto ad una legge elettorale con soglia al 5% potrebbe preferire l’attuale sistema con soglia più rassicurante al 3. Ma si tratta di 'piani B' insidiosi, perché porterebbero a urne anticipate a ridosso di un referendum costituzionale che cambia la composizione delle Camere, con il rischio di un guazzabuglio istituzionale. Il premier Conte comprende però i rischi e avvisa: «Il referendum non impatta sull’agenda di governo per il 2020», dice mettendosi in scia al discorso di Mattarella alle alte cariche.


Primavera 2020 urne sempre aperte
Un referendum costituzionale sempre più vicino. Un altro, abrogativo, sul quale deve decidere la Consulta. E poi sei Regioni pesanti: Veneto, Liguria, Toscana, Marche, Campania e Puglia. Come se non bastasse, saranno chiamati alle urne i cittadini di oltre mille comuni, tra i quali ben 17 sono capoluoghi di provincia (i più importanti Venezia, Trento, Aosta, Matera e Reggio Calabria). Tutto previsto nello stesso range temporale: tra aprile e giugno. Preventivabile un super "election-day" di notevole impatto sugli scenari nazionali.

E da M5s, in particolare dal ministro D’Incà, arrivano segnali che tendono a disgiungere il referendum dalla durata della legislatura. Quanto al referendum in sé e per sé, sarà sicuramente una consultazione particolare. Il taglio del numero dei parlamentari è stato votato dalla maggioranza giallo-verde del Conte I e in ultima lettura dalla maggioranza giallo-rossa del Conte II, con la promessa - strappata dal Pd - di 'bilanciamenti' in Costituzione ancora allo stadio iniziale. Anche FI e FdI hanno votato la riforma. Insomma, i partiti maggiori sono tutti sul «sì». E Di Maio già sfida: «Voglio proprio vedere chi fa campagna per il no...».

Ma il problema non è questo. Il referendum costituzionale non prevede quorum, quindi l’elemento fondamentale è la motivazione ad andare a votare. Inoltre, l’eventualità che si svolga il referendum costituzionale rimette potenzialmente in pista il referendum abrogativo promosso dalla Lega che cancella dal 'Rosatellum' la parte proporzionale e lo trasforma in un maggioritario. Testo a rischio di bocciatura da parte della Consulta perché non 'autoapplicativo', mancando collegi elettorali. Ma ora che la riforma costituzionale è entrata in stand-by, anche i collegi sono rinviati a dopo il referendum.

Il Carroccio avrebbe dunque qualche ragione in più da far valere per far passare il proprio referendum per il maggioritario. Il problema è che se gli addetti ai lavori ci capiscono solo fino a un certo punto, forte è il rischio che i cittadini-elettori ci capiscano ancora meno.

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