sabato 2 novembre 2013
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Al loro attivo hanno 150mila vite, che senza il loro impe­gno non sarebbero venute al mondo. Quasi 10mila nel solo 2012: bambini che erano destinati in gran parte ad essere abortiti, o abbando­nati, comunque tutta in salita fin dal primo respiro. Sono i 338 Centri di aiuto alla Vita (Cav), riuniti ad Assisi per il 33° Convegno nazionale, intito­lato «Città della pace, città della vita». «Come sindaco di Assisi spesso mi trovo a dover parlare di pace – ha a­perto i lavori il primo cittadino, l’in­gegner Claudio Ricci – e oggi dico che il termine da solo non basta più, oc­corre accompagnarlo con uno stile concreto di vita», tenendo a mente quei valori di «custodia reciproca» che lo stesso Papa Francesco proprio qui ad Assisi ha ricordato nella sua re­cente visita. «Secondo i sondaggi un 10% di popolazione in meno prova speranza. La ricostruiremo solo con il «noi», rinunciando un po’ all’'io'».
La rinuncia all’ego che anima certa­mente chi dona il proprio tempo per stare accanto «ai fratelli più vulne­rabili, cioè alle periferie esistenziali, come fate voi», ha commentato pa­dre Massimo Reschiglian, ministro provinciale dei Frati minori del­l’Umbria: «All’epoca di san France­sco i lebbrosi, ovvero le periferie as­solute, erano chiamati 'i minori', proprio il nome che il santo scelse per i suoi frati. Egli volle abbraccia­re il lebbroso e in lui ritrovò se stes­so e Dio: allo stesso modo anche voi siete operatori di pace». Come infat­ti diceva un altro sindaco, La Pira, «il centro della città non è la piazza maggiore, ma l’uomo che soffre». Alla pace possono portare anche le parole, ha ricordato Marco Tarquinio, direttore di «Avvenire», purché siano strumento di verità e non di inganno: «Se questo è un tempo senza pace – ha sottolineato infatti – forse è anche perché noi giornalisti mettiamo in cir­colo troppe parole di guerra, parole furiose, che portano divisione. Per fa­re la pace, invece, bisogna sapersi ri­conciliare, prima di tutto con sé stes­si ».
Proprio i media, però, spesso ma­nipolano i vocaboli, creando corto­circuiti per cui il concetto si capovol­ge: «Vengono tacciati di 'crudeltà' i credenti che difendono la vita, in quanto imporrebbero regole dure – ha citato come esempio – o perché danno uguale dignità alla madre e a suo figlio, l’essere più piccolo e sen­za voce». Altro capovolgimento av­viene con la parola «ingiustizia», usa­ta come alibi per spegnere vite con­siderate minori: se nascere disabili è «un’ingiustizia», «l’ideologia odierna ammette al diritto di essere vivi solo i perfetti». E il termine «legalità» spac­cia per lecito ciò che non lo è, dal­l’eutanasia di Eluana Englaro all’eti­chetta di «clandestini» ancora oggi af­fibiata a fratelli in fuga da guerre e mi­serie. «Eppure resto ottimista», è la posi­zione dello scienziato, il neurologo Gianluigi Gigli, oggi deputato, «perché la scienza sta prendendosi le sue ri­vincite dopo un lungo periodo in cui il binomio scienza e vita sembravano un ossimoro».
Due gli esempi con­creti: «Dopo il Nobel dato a Yama­naka, lo stesso Ian Wilmut, 'padre del­la pecora Dolly' e inventore della clo­nazione, ha dovuto ammettere che la strada delle staminali embrionali era sbagliata». E poi «se dietro la morte di Eluana c’era l’assunto che un uo­mo in stato vegetativo non era più u­na persona, adesso ogni giorno la scienza dimostra che in quei cervelli permangono coscienza e canali di co­municazione ». Il problema non è la conoscenza ma l’uso che se ne fa: «Il grande Lejeune ideò l’amniocentesi non per distruggere vite ma per cu­rarle precocemente. Invece si dannò fino alla morte per ciò che era diven­tata ».
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