sabato 18 marzo 2017
Zero risorse, tempi lunghi per le assegnazioni. «I nuovi ghetti? Già realtà». Dopo l’allarme lanciato da Firenze sul rischio banlieue, si apre il confronto Piran (Sicet Cisl)
Manifestazione per il diritto alla casa in una città italiana

Manifestazione per il diritto alla casa in una città italiana

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Nel deserto dimenticato delle case popolari, si sta disegnando il futuro dell’Italia di periferia. È un mondo immobile, in cui gli alloggi vengono assegnati col contagocce, i tempi d’attesa rimangono biblici e le graduatorie rischiano di diventare incubatori di odio e risentimento, tra italiani e stranieri. Se n’è accorto, tra gli altri, il sindaco di Firenze, Dario Nardella, che qualche giorno fa ha lanciato l’allarme-ghetti. «Il rischio – ha detto – è andare in direzione del modello delle banlieue parigine». Ma cosa dicono i numeri? Quante famiglie vivono nei palazzoni di periferia di edilizia popolare? E cosa si sta facendo, concretamente, per scongiurare tensioni e piccole rivolte come quelle che ciclicamente avvengono in grandi città come Milano e Roma?

La lunga attesa di chi si mette in coda
L’ultimo rapporto Nomisma quantifica in 1,7 milioni le famiglie in locazione che attraversano oggi una condizione di disagio abitativo e «corrono un concreto rischio di scivolamento verso forme di morosità e di possibile marginalizzazione sociale». Due su tre sono italiane, anche perché l’attuale presenza di famiglie autoctone nelle abitazioni è elevatissima rispetto agli stranieri: il rapporto è di 9 a 1. «Il primo problema è l’assenza di offerta: non ci sono più nuove case pubbliche, non c’è più edilizia popolare» dice sconsolato Guido Piran, segretario nazionale del Sicet, il sindacato inquilini della Cisl, che segue il fenomeno da sempre. Quanto agli stranieri, la strategia degli enti locali è stata molto semplice: allungare i tempi di permanenza richiesti agli immigrati per avere diritto di partecipare ai bandi. La legge 112 del 2008 chiedeva che fossero presenti da almeno 10 anni sul territorio italiano e da almeno 5 nella stessa Regione. Adesso si va verso requisiti di residenza più lunghi, ma non è detto che ciò serva a scoraggiare le famiglie non italiane dal fare domanda. «Occorre distinguere tra quel che è accaduto negli ultimi decenni e quel che potrebbe accadere in futuro – spiega Luca Dondi, direttore generale di Nomisma –. Attualmente, assistiamo a u- na distanza notevole tra coloro che si trovano nelle graduatorie e gli effettivi assegnatari. Se su 10 case popolari una sola è abitata da stranieri, negli elenchi di chi si mette in coda per chiedere un alloggio troviamo il 45% di non italiani».

Un fenomeno che nelle metropoli è ancora più significativo ed è dovuto sia all’arrivo di manodopera immigrata indigente sia al progressivo venir meno della componente nazionale, consapevole dei tempi lunghi richiesti dalle procedure. «Che nelle regioni del Nord il numero degli immigrati presenti in graduatoria sia preponderante è vero» conferma Piran. Il problema è un altro: con quali tempi i cittadini stranieri riceveranno risposta (e disponibilità) da parte degli enti preposti? Una volta verificati i requisiti (documenti in regola e posto di lavoro per avere permesso di soggiorno) dipende dai bandi indetti a livello locale. «Se lo straniero è in una Regione in cui i bandi si fanno regolarmente, bene. Altrimenti, dovrà aspettare – continua il sindacalista –. Chi entra in graduatoria dovrà poi attendere che si liberi un appartamento adeguato al suo nucleo familiare. Dipenderà cioé dalla presenza di figli, anziani, soggetti con disabilità. Senza una nuova offerta di alloggi, dovrà aspettare che muoia qualcuno, sempre che non subentri il familiare convivente. Per questo, i tempi d’attesa non sono determinabili. Sono infiniti». Per Nomisma, si viaggia a una media di assegnazioni di 60-70 alloggi all’anno e una parte di essi va a beneficio di chi è già occupante. «L’ultima analisi effettuata sul caso della Basilicata dice che oggi c’è un tasso di rotazione pari a 80 anni per sistemare 2.100 famiglie. Nel resto d’Italia, in media, tra l’inserimento in graduatoria e l’assegnazione possono passare 50-60 anni» spiega Dondi. Si torna al punto di partenza: l’edilizia sociale in Italia non esiste più. Né ha mai funzionato la politica di messa in vendita degli immobili con lo scopo di sanare i bilanci, anzi «in questi anni gli enti pubblici hanno venduto alloggi per poter pagare gli stipendi – afferma Piran –. Quanti soldi servirebbero per tornare a fare edilizia pubblica? Tre miliar- di all’anno, invece è da metà degli anni Novanta che non arriva un euro».

Discriminazioni (di oggi e di domani)
Senza fondi e senza progetti, i quartieri periferici che ospitano case popolari sono di fatto dei ghetti già oggi. «C’è stata una precisa volontà politica nell’arrivare a tutto questo: sono mancati finanziamenti, manutenzioni del parco case esistente, piani di vivibilità nelle varie zone – ricorda il sindacalista della Cisl – . L’illegalità di certe aree è il risultato finale di alcune scelte: molti immigrati vengono a lavorare in centro nelle grandi città e poi noi li respingiamo fuori». Secondo il manager di Nomisma, «il problema è partire dalla casa per fare un ragionamento di inclusione sociale che sin qui non c’è stato. In questo senso, la posizione del sindaco di Firenze, Nardella, è pragmatica ma non risolutiva. Anche se si volesse chiedere una permanenza più lunga ai cittadini stranieri da parte delle singole Regioni, non riusciremmo comunque a trovare la soluzione: sposteremmo soltanto qualcuno fuori dai criteri di assegnazione degli alloggi per qualche tempo, ma ce lo ritroveremmo più in là». Pensare di intervenire sulle graduatorie, ristabilendo all’apparenza principi di presunta equità tra italiani e stranieri, permetterebbe solo di guadagnare tempo, in attesa magari di ampliare le dotazioni e di liberare nuove abitazioni. La transizione tra il vecchio (che durerà dunque a lungo) e il nuovo (ancora di là da venire) nel frattempo può produrre altre fratture, aumentando «il senso di frustrazione e di reazione per chi abita questi non luoghi».

Cosa accadrà se un domani dovesse esserci il sorpasso, se cioé i nuovi arrivati dovessero subentrare agli italiani non solo nelle classifiche virtuali ma anche nelle assegnazioni reali? «Il ghetto non è dietro l’angolo, ma il sentimento a cui fin d’ora bisogna saper reagire è quello dell’usurpazione» ragiona Dondi. Per intenderci: siamo di fronte a un rischio percepito e potenziale, ma oggi il duello latente tra autoctoni e non autoctoni è più forte in altri settori, si pensi alle iscrizioni agli asili nido dei paesi che scatenano spesso piccole guerre di religione. Questo non vuol dire che la questione non resti centrale: le nostre periferie vanno presidiate e rassicurate per evitare potenziali scontri di civiltà. Ma per spegnere sul nascere i venti di rivolta che soffiano intorno alle case popolari, è necessario vincere un’altra sfida: quella che riguarda la distanza tra i cittadini e le istituzioni.

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