giovedì 17 gennaio 2019
Fermata la banda che da 4 anni sfruttava più di 200 braccianti romeni nei campi del Materano. Grazie alla denuncia di uno dei lavoratori.
Schiavi dei caporali per 18 ore al giorno
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Una vera e propria organizzazione criminale che ha sfruttato più di 200 braccianti romeni, ridotti di fatto in schiavitù nei campi di Scanzano Jonico e Policoro, in Basilicata. L’hanno scoperta i carabinieri di Matera, assieme ai colleghi per la Tutela del lavoro, nell’inchiesta coordinata dalla locale procura che ieri ha portato in carcere 11 persone, 5 romeni e 6 italiani, uno agli arresti domiciliari, un obbligo di dimora e uno di presentazione alla polizia giudiziaria. Coinvolti gli organizzatori e i complici romeni, imprenditori agricoli italiani, un impiegato comunale di Scanzano Jonico, un ex sindacalista e la figlia attualmente operante in un patronato Uil.
L’accusa è di associazione a delinquere pluriaggravata finalizzata alla commissione di delitti di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro a carattere transnazionale, estorsione, violenza privata, corruzione, uso indebito di carte di credito. «La Basilicata non è un’isola felice – ci dice il generale Rosario Castello, comandante della Legione Carabinieri della regione –. Quella è la zona più ricca dal punto di vista agricolo, con prodotti esportati in tutto il mondo, ma a che prezzo vengono prodotte queste bontà della terra? Abbiamo ottenuto un risultato veramente importante, un’operazione che è un esempio da esportare in altri territori, e non solo al Sud». Un’inchiesta ancora una volta favorita dalle legge 199 del 2016, sulla lotta al caporalato. «Una norma preziosa – sottolinea il generale – che ci aiuta a combattere il fenomeno in modo più completo e efficace».
Gli affari della “banda” italo-rumena sono andati avanti per quattro anni, fruttando quasi un milione mezzo di euro, fino a quando uno dei lavoratori ha deciso di andare a denunciare dai carabinieri le modalità di arruolamento, lo sfruttamento e le violenze psicologiche e fisiche. Ai militari della compagnia di Policoro riferisce di aver letto, a metà del 2014, una pagina Facebook con un offerta di lavoro in Italia. Contatta il numero telefonico indicato e l’interlocutore gli spiega che si tratta di lavoro in agricoltura con una paga di 3,50 euro l’ora. Il lavoratore accetta, raggiunge il mediatore a Bucarest. E qui cominciano i pagamenti: 150 euro per l’intermediazione, 100 per il viaggio su un pullman assieme ad altri 8 lavoratori. Vengono “scaricati” in un’area di servizio sulla statale 106, dove trovano uno dei capi dell’organizzazione che li porta a Scanzano Jonico dove una donne, anch’essa rumena, elenca le condizioni cui dovevano sottostare per lavorare: affitto mensile di 120 euro trattenuto dalla busta paga, «condizioni di lavoro massacranti», 25 euro a settimana (sempre trattenute dal salario) per provvedere alla spesa. Spiega che «avrebbero guadagnato di più se avessero prestato più ore di lavoro». Orario compreso tra le 6 del mattino e la sera, «ma mai inferiore alle 18 ore», andando «avanti a oltranza finché c’era luce con una sola pausa pari a mezz’ora». Senza servizi igienici adeguati e eludendo la normativa in materia di sicurezza. Il tutto sotto controllo di uno degli organizzatori che «spesso li rimproverava, arrivando anche a picchiarli».
Un’organizzazione completa che addirittura procurava ai braccianti sigarette di contrabbando bulgare, ovviamente a pagamento. E poi li obbligava, versando altri 200 euro, a fare la carta d’identità italiana (i documenti romeni venivano sottratti), dicendo che era necessaria per il pagamento dello stipendio. E questo grazie alla complicità di un impiegato comunale, che in cambio riceveva denaro e regali. Mentre i sindacalisti realizzavano le pratiche per ottenere le indennità previdenziali e assistenziali che però venivano incassate dalla “banda” e non dai lavoratori, che invece dovevano pagare le pratiche. In realtà, come confermato da altri braccianti, lo facevano senza capire cosa fossero, visto che erano in italiano e nessuno spiegava. E comunque di fronte a qualche dubbio arrivavano le minacce di non farli lavorare più, obbligandoli anche a firmare buste paga mai incassate per centinaia di euro.
Anche gli imprenditori italiani «partecipavano a pieno titolo al sodalizio indagato» in quando «traevano un notevole vantaggio economico», concordando coi caporali «delle paghe inferiori a quelle previste dai contratti collettivi, con evasione contributiva per le giornate pagate “a nero”». «È molto importante il coinvolgimento di alcuni imprenditori che utilizzano questi lavoratori sottoposti a una schiavitù – commenta ancora il generale –. L’inchiesta continua per dare un colpo ancora più forte a questo mercato di esseri umani».

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