martedì 19 luglio 2022
Alexia, Doris e Jurgen hanno in comune una vita trascorsa nel nostro Paese e lo stesso problema: non sono italiani. «Tanti sogni e poi si ricomincia da zero. Lo Ius Scholae? Servirebbe»
Burocrazia e nessuna legge «La cittadinanza? Un sogno»
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Storie di ordinaria burocrazia. E di diritti negati per le storture di una legge che oggi li condanna a sentirsi stranieri in quello che è a tutti gli effetti il loro Paese. Jurgen, Alexia e Doris sono tre esempi emblematici di come lo Ius scholae, ora fermo alle Camere, risolverebbe il problema alla radice. Hanno età e situazioni diverse, ma sono uniti dallo stesso filo rosso. Sono 'italiani senza cittadinanza'. Jurgen Kulli ha 24 anni ed è nato a Spoleto da famiglia albanese che non ha mai chiesto la nazionalità italiana. «Quando i miei genitori divorziarono – spiega – mio padre, che aveva in carico i documenti, non rinnovò il mio permesso di soggiorno e quindi io ho vissuto da irregolare nel mio Paese, fino a 18 anni, senza rendermene conto.

Frequentavo la scuola dell’obbligo e quindi non potevano espellermi, così come mia madre, che viveva qui con due figli a carico. Diventato maggiorenne ho fatto richiesta per la cittadinanza: con il mio avvocato Suzana Korriku abbiamo presentato tutti i documenti che certificavano il fatto che io sono nato qui e non sono mai uscito dal-l’Italia. Niente. Ho anche chiesto al prefetto: 'Mi faccia una prova di italiano', ma non c’è stato verso».

Oggi Jurgen, che lavora in una impresa edile, ha un pemesso umanitario, ottenuto a fatica e deve rinnovarlo ogni anno, fino a quando, a 30 anni, potrà ottenere la cittadinanza. E intanto, trova ostacoli ovunque. «Vorrei tanto fare il concorso per entrare in Polizia, ma non posso, perché non sono italiano» dice. Alexia Miranda Cedono ha 18 anni ed è nata a Foligno, da famiglia originaria dell’Ecuador. Oggi studia all’Università e lavora in un fast food, ma questo non basta per garantirle la cittadinanza. Nel suo caso, alla burocrazia si unisce il destino, in una combinazione che oggi la costringe a dover stare attenta a non perdere mai il lavoro: «Il mio permesso di soggiorno è per motivi di lavoro e se lo perdo, potrebbero rimandarmi in Ecuador, dove io non saprei che fare», spiega. Tutto comincia nel 2016, quando i genitori decidono di tornare in Ecuador, portando con loro Alexia ed i due fratelli. Doveva essere una permanenza breve, ma fra un problema coi documenti, uno economico ed il lockdown, restano nel Paese sudamericano cinque anni.

«A me mancava la pasta, io mi sono sempre sentita straniera in Ecuador, ho tenuto l’Italia nel cuore tutto il tempo – dice Alexia –. però avevo 12 anni, non potevo farci niente, decidevano i miei genitori». Questa lunga sosta, per la legge italiana, le impedisce, oggi che è maggiorenne, di poter richiedere la cittadinanza. «Io e i miei fratelli siamo paradossalmente 'vittime' della decisione dei nostri genitori – spiega –. Ho dovuto rifare da zero il permesso di soggiorno ed oggi ce l’ho per motivi di lavoro, rinnovabile anno dopo anno. L’Università? Per lo Stato non conta, perché non fa parte dei percorsi di istruzione obbligatoria». Anche per lei, ci vorranno dieci anni di residenza o il matrimonio con un italiano.

Ma la storia più paradossale è quella di Doris Egwu, 39 anni, nata in Nigeria e trasferitasi in Umbria da quando aveva otto mesi. Anche lei lavora ed è attivista per i diritti degli 'italiani senza cittadinanza' presso l’associazione Il Pettirosso. La sua domanda di cittadinanza è bloccata dal casellario giudiziale. Ma non quello italiano, bensì quello nigeriano: «In Italia, dove la responsabilità penale comincia a 14 anni, mi chiedono un documento che attesti che io non abbia commesso reati quando avevo da zero a 8 mesi, in Nigeria». Non solo: «Siamo già al terzo tentativo: prima è arrivato scaduto, poi è arrivato in inglese ed è scaduto per i tempi lunghi della traduzione in Italia.

Quando tornerò in Nigeria proverò ad ottenerlo, ma non sarà facile perché l’anagrafe là non funziona bene. I miei genitori non hanno mai voluto fare richiesta ed io stessa ho capito che serviva quando è morto mio padre. Avevo 19 anni e non mi ero mai mossa dall’Italia, ma purtroppo mancava un requisito: mia madre infatti aveva sempre lavorato in casa, era mio padre che manteneva la famiglia. Ha iniziato a lavorare in quell’anno, dopo la morte di mio padre». È qui che entra in gioco la distratta burocrazia italiana: «Passati cinque anni, avevamo tutto in regola, ma quando siamo andati a fare richiesta abbiamo scoperto che secondo lo Stato italiano avevamo vissuto per un periodo in Nigeria, io e mio fratello, senza mia madre, quando lui aveva 5 mesi ed io ero al nido. In realtà ci eravamo solo trasferiti da Perugia a Terni, con la famiglia». Oggi, sua madre e suo fratello sono riusciti ad ottenere la cittadinanza mentre Doris attende ancora il documento e nel frattempo può restare in Italia perché «familiare di un convivente con cittadinanza italiana». Maledetta burocrazia.

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