giovedì 18 aprile 2013
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​A San Pio delle Camere, borgo di seicento anime adagiato sulle montagne abruzzesi, per scaramanzia i compaesani del «lupo marsicano» evitano di rispondere alla domanda. Ma dal loro tono di voce, allegro e per nulla irritato, affiora la speranza che il loro più illustre concittadino possa davvero, fra poche ore, appoggiare il cappello con la penna nera da alpino sul Colle più alto delle istituzioni repubblicane. In una di quelle case arroccate a 800 metri sul fianco della montagna, Franco Marini è nato il 9 aprile del 1933, primo figlio di una famiglia numerosa. Laureato in legge, ufficiale degli alpini, una vita nella Democrazia cristiana (s’iscrisse nel 1950) e nella Cisl (dove entrò ancora studente), fino a diventarne nel 1985 segretario nazionale. Nel 1991, alla morte di Carlo Donat Cattin, ne ereditò il ruolo di capo corrente e divenne ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale nell’ultimo governo Andreotti. A quei tempi, risale l’amicizia con Giorgio Merlo, parlamentare piemontese del Pd fino alla scorsa legislatura: «Su ipotesi quirinalizie non mi pronuncio - premette al telefono -. Dico solo che il buonsenso vorrebbe che dalle urne esca rapidamente una figura che rappresenti la storia recente del Paese e in cui molti si possano riconoscere. E quello di Franco è un nome così. Non spetta a me elencarne i meriti...». C’è chi dice che sia troppo anziano: «Ha ottant’anni appena compiuti - osserva Merlo -, dunque qualcuno in meno dello straordinario Giorgio Napolitano, al quale pure in molti avevano chiesto di restare...». È cattolico, prosegue, «ma non ha mai sventolato, come qualcuno malignamente ha provato a insinuare, le convinzioni religiose negli incarichi istituzionali, interpretati sempre laicamente. E anche l’accusa di non esser stato rieletto è una bassezza, visto che proprio lui aveva accettato nobilmente di scendere al numero due in lista, su richiesta del partito...».Nella cerchia degli amici più stretti, c’è il prudente «no comment» del calabrese Nicodemo Oliverio, ora deputato dal Pd ma suo storico braccio destro dei tempi della Dc. E fedele alla consegna del riserbo è pure il giornalista campano Guelfo Fiore, suo portavoce durante l’esperienza della Presidenza del Senato (2006-2008), quando Marini esordì con una frase d’altri tempi («In un dialogo fermo e mai abbandonato, sarò il presidente di tutti voi»), che rappresenta la cifra della sua esistenza, improntata al servizio del Paese, con passione civile ma senza false retoriche o partigianerie. Gli porta rispetto anche Silvio Berlusconi, che rammenta quando, da segretario del Ppi, Marini nel 1997 rimarcò la distanza da Romano Prodi (avversario storico del Cavaliere e ora anche lui nella rosa "quirinalizia"), che voleva "annegare" l’individualità dei popolari dentro l’Ulivo. O quando, nel 2005, tra Prodi e Rutelli appoggiò quest’ultimo, sostenendo l’opportunità che la Margherita si presentasse da sola al proporzionale. Per lui c’è anche la stima di Giorgio Napolitano, che nel 2008, chiusa bruscamente l’esperienza del governo Prodi, gli conferì un incarico "esplorativo" per provare a formare un esecutivo di maggioranza e opposizione per prendere le decisioni urgenti e riformare la legge elettorale. La missione «impossibile» non riuscì e Marini, dispiaciuto, rimise dopo quattro giorni l’incarico. Se alla fine il Parlamento dovesse eleggerlo («Sarà dura ma ci proveremo», assicura un dirigente del Pd, dove il veto renziano suona come una minaccia) potrebbe toccare a lui, per quei corsi e ricorsi storici cari a Giambattista Vico, assumere una decisione analoga, incaricando un premier per dar vita a un governo di larghe intese. E sul Colle tornerebbe simbolicamente a sbuffare una pipa, assente dai tempi di Sandro Pertini. Una fra le più care gli è stata donata da un altro abruzzese di rango, Gianni Letta, che (qualcuno ipotizza) potrebbe perfino salire con lui, come segretario generale del Quirinale.
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