martedì 4 gennaio 2022
Pur se limitata, la parte universale dell’Assegno è un tentativo di cambiare un certo sguardo sulla società, mettendo i figli di tutti sullo stesso piano, come è per la scuola, i trasporti, la sanità
Chiara Ferragni e il marito Federz

Chiara Ferragni e il marito Federz - Archivio Ansa

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Una delle novità più interessanti del nuovo Assegno unico e universale per i figli riguarda il termine universale. Il contributo andrà a tutti i genitori che faranno richiesta e l’importo dipenderà dalle dichiarazioni Isee. Tra i Paesi che prevedono un assegno di questo tipo l’Italia è l’unico che lo vincola a una prova così dettagliata dei mezzi, arrivando a valutare oltre al reddito anche il patrimonio e i risparmi. La discontinuità culturale rispetto al passato, in termini di politiche familiari, è evidente: chi non vorrà presentare l’Isee potrà ottenere comunque 50 euro al mese a figlio, 600 euro l’anno, semplicemente facendo domanda all’Inps.

È prevedibile che non pochi sceglieranno questa strada, rinunciando a un assegno di maggiore importo, per eliminare il passaggio dai Caf o per evitare una radiografia su quanto si possiede.

La novità dell’universalismo ha fatto discutere e non convince molti, in particolare chi sostiene che l’Assegno debba servire solo ad aiutare le fasce deboli, e non anche a sostenere la natalità di un Paese in crisi demografica. Si deve a questa visione la scelta di ricorrere all’Isee e di fissare a "soli" 50 euro la quota universale per le dichiarazioni oltre i 40.000 euro. Così pure la polemica dopo l’esempio fatto dalla ministra della Famiglia, Elena Bonetti, che con una battuta ha fatto notare come anche i “Ferragnez” – la celeberrima coppia composta dal cantante Fedez e dalla influencer Chiara Ferragni – potranno ricevere l’Assegno qualora lo chiedessero (100 euro al mese, considerato che hanno due figli).

Un modo per riflettere sull’opportunità della scelta universalistica è provare a capire cosa riceverebbero i Ferragnez se abitassero altrove. In Francia la coppia, che di sicuro dichiara più di 93mila euro l’anno, livello oltre il quale si riceve il minimo, avrebbe diritto a 33 euro, perché Oltralpe l’assegno spetta solo dal secondo figlio. Tuttavia, grazie al Quoziente fiscale che premia chi ha prole a carico, Fedez e Ferragni pagherebbero svariate migliaia di euro in meno di tasse. In Germania potrebbero invece ricevere 440 euro al mese di assegno (oltre 5.000 euro l’anno), ma essendo ricchi contribuenti per loro sarebbe più interessante rinunciare all’assegno e in alternativa beneficiare delle deduzioni fiscali che aumentano il beneficio rispetto al Kindergeld. In Svezia l’assegno sarebbe invece di 270 euro al mese (3.240 euro l’anno in tutto).

Dunque se i Ferragnez trasferissero la loro residenza altrove il vantaggio sarebbe assai maggiore dei 100 euro italiani. La filosofia dei contributi per i figli, nella stragrande maggioranza dei Paesi che li prevedono, è quella di premiare tutte le famiglie, perché le politiche “per” la famiglia non coincidono con le misure “contro” la povertà.

Perché allora, in Italia, in tanta parte dell’opinione pubblica e della politica, è difficile accettare l’idea di incentivi veramente universali se si parla di nascite? Un’ipotesi è che questo dipenda dall’idea che i cittadini hanno di come nel proprio Paese è possibile muoversi sui gradini della scala sociale. In un contesto, cioè, in cui la ricchezza è percepita discendere da un diritto ereditario, essere frutto di un privilegio concesso (da un apparato burocratico, da un sovrano...), oppure dipendere dalla fortuna, è facile ritenere che niente in più debba essere dato a chi ha già avuto. In una società, invece, in cui la mobilità sociale è un’esperienza tangibile, anche lo sguardo sui sistemi fiscali e di welfare sarà probabilmente diverso.

Non è una questione di meritocrazia, perché sappiamo quali e quante distorsioni possono celarsi dietro questo termine (su Avvenire ne hanno scritto bene Luigino Bruni e Paolo Santori, Vittorio Pelligra, Andrea Lavazza). Il punto è capire se vi debbano essere o meno situazioni e azioni meritevoli di un premio nell’interesse della collettività. In questo senso, l’approccio che esige di non mettere sullo stesso piano tutti i figli è rivelatore di una comunità che in primo luogo considera la prole un bene privato, ma soprattutto che si percepisce, o si vuole, imbrigliata in rigide classi sociali, con scarse possibilità di movimento. È, cioè, la visione che riflette (e accetta) una dimensione in cui la ricchezza è solo tramandata, come certi orologi di lusso, oppure dipende da fattori che escludono la possibilità di crescere con le proprie forze, perché tutto è fondato sulla raccomandazione, la fortuna, la regalìa, la concessione.

È chiaro che in un contesto culturale con queste caratteristiche diventa più difficile una politica che guardi alla “meritorietà” nel diritto a un beneficio. Se ci si pensa bene, la natura dell’ostilità verso un assegno-figli veramente universale è la stessa che, su sponde politiche opposte, porta a contestare uno strumento di inclusione e di contrasto alla povertà come il Reddito di cittadinanza. I genitori, in sostanza, non meritano un premio o un incentivo, così come i poveri non meritano una stampella che non sia “condizionale”. Il sottinteso è che i poveri resteranno tutta la vita aggrappati al contributo, dato che questa è una condizione difficile da sovvertire e che loro stessi sono arrivati ad accettare, almeno finché non interverrà qualcosa di imponderabile.

Questa visione della società può affondare le sue radici nella storia – e tra le tante conseguenze che produce vi è anche il rifiuto di ogni forma di patrimoniale – ma se la si accetta finisce per diventare una gabbia che impedisce alla società di evolvere. La stessa cultura che in modo bipartisan ma speculare si oppone a un assegno figli universale o a un reddito di cittadinanza di base, accetta invece e sostiene attivamente la distribuzione di “premi” come i bonus monopattino, i bonus bici, i bonus terme, il bonus facciate... per i quali non è posto alcun limite di reddito. Questa contraddizione ha un senso se si riesce a coglierne il lato grottesco: una popolazione che dopo l’indizione di un “clic day” si mette ai nastri di partenza digitali per conquistare uno sconto a disponibilità limitata, non assomiglia forse a una folla di sudditi di ogni estrazione sociale che si accalca sotto la finestra del castello per catturare i soldi lanciati dal sovrano? O ancora: la concessione di bonus edilizi senza guardare né al reddito né al patrimonio, non è figlia dell’idea che la torta da spartire spetti anche ai “ricchi” perché, mangiando, lascino cadere le briciole in grado di sfamare chi non può sedere alla stessa tavola?

Il lato paradossale è che tutti i bonus di questo tipo, in realtà, servono a far crescere i consumi e a tenere in piedi settori che in parte scontano proprio il peso della crisi demografica e del calo delle nascite. Ma in una società in cui si ritiene (e accetta) che le posizioni sulla scala sociale siano ereditarie e immutabili, va da sé che i figli non vengano considerati un bene comune, ma un lusso privato, alla stregua di un cavallo, un motoscafo o un’auto costosa. In tal senso un Assegno figli non è considerato un premio-incentivo, ma lo strumento che serve a concedere il lusso della prole anche a chi non se lo può permettere.

Pur se limitata, la parte universale dell’Assegno unico si presenta dunque come un tentativo di cambiare un certo sguardo sulla società, mettendo i figli di tutti sullo stesso piano, come è per la scuola, la sanità, i trasporti... Quanto a Fedez e Ferragni, è sempre possibile riconoscere che una parte degli assegni distribuiti al resto della popolazione sono pagati anche con le tasse della coppia. Se poi la descrizione di una società di sudditi ingabbiati in rigide classi sociali non fosse solo un’immagine distorta, ma corrispondesse veramente alla realtà, allora il problema che abbiamo sarebbe molto più grande di un Assegno unico che è stato reso anche un po’ universale.

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