venerdì 9 maggio 2014
Il pm: ha favorito la latitanza di Matacena (ex Fi).
Cafiero de Raho: «La corruzione serve alle 'ndrine. Ci vuole più etica»
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«Sconcertato e sconvolto...». Così è apparso ieri mattina l’ex ministro di Forza Italia Claudio Scajola, già titolare di Interno e Attività produttive, agli investigatori della Dia che hanno bussato alla porta della sua camera, in un lussuoso albergo di via Veneto, a Roma, per eseguire un ordine di custodia cautelare in carcere emesso dal gip del tribunale di Reggio Calabria, Olga Tarzia, per «procurata inosservanza di pena». In attesa dell’interrogatorio di garanzia, l’ex ministro si trova nel carcere romano di Regina Coeli: «È sereno, fiducioso nell’operato della magistratura e certo che la sua estraneità ai fatti contestati verrà pienamente accertata anche questa volta», fanno sapere i suoi avvocati, chiedendo alla stampa di «evitare processi mediatici». Per la pubblica accusa, al contrario, a suo carico «è emerso un grave quadro indiziario». Lo sostengono i magistrati della procura reggina, convinti che abbia cercato di favorire l’imprenditore ed ex deputato di Forza Italia Amedeo Matacena (condannato a ottobre con pena definitiva a 5 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa e attualmente latitante a Dubai), per fargli evitare, con un viaggio in Libano, l’estradizione verso l’Italia.L’arresto di Scajola è fra gli 8 provvedimenti scaturiti da una costola della più ampia inchiesta «Breakfast» della procura di Reggio Calabria, partita due anni fa da indagini su reinvestimenti di capitali illeciti della ’ndrangheta e che, nell’aprile 2012, aveva portato i pm a indagare l’allora tesoriere della Lega Nord Francesco Belsito, insieme ad altre persone. Tra loro, anche il consulente calabrese, con studio a Milano, Bruno Mafrici: da una sua conversazione con Matacena, i pm sarebbero partiti per ricostruire una fitta rete di relazioni fra persone che ora la Dda ritiene, a vario titolo, fiancheggiatori e autori del tentativo di interporsi fittiziamente, come prestanome di Matacena, nella titolarità di alcune società. Ieri il gip ne ha disposto il sequestro preventivo, mettendo i sigilli a un insieme di beni del valore di 50 milioni di euro: «È stata un’indagine difficile, che ha evitato la completa schermatura» di quelle società, spiega il capo centro della Dia reggina, Gianfranco Ardizzone.

In carcere è finito anche il "factotum" di Matacena, Martino Politi, mentre alla madre e alla segretaria del politico calabrese, Raffaella De Carolis e Maria Grazia Fiordelisi, alla storica segretaria di Scajola, Roberta Sacco, e ad Antonio Chillemi (accusato insieme a Politi di aver fatto da prestanome per Matacena) sono stati concessi i domiciliari. Restano da eseguire due provvedimenti, a carico dello stesso Matacena e della moglie dell’ex deputato, Chiara Rizzo. A lei, annota il gip Tarzia nell’ordinanza, Scajola sarebbe stato «asservito». Sono diverse le telefonate fra i due intercettate dagli inquirenti. E alcune avrebbero rivelato l’esistenza del presunto progetto per portare in Libano Matacena, ricercato dall’estate scorsa, arrestato a Dubai il 29 agosto 2013 e rimesso in libertà, ma senza passaporto. Da lì la necessità, per l’accusa, di spostarlo in un luogo «più sicuro», che sarebbe stata prospettata da Scajola. In particolare, in una conversazione registrata dagli investigatori il 12 dicembre 2013, sul presunto «spostamento di denaro da un conto corrente all’altro», si denota, scrive il gip, «l’asservimento totale dello Scajola alle necessità della Rizzo». Secondo l’accusa, l’ex ministro avrebbe ipotizzato una soluzione per Matacena, attraverso lo spostamento «in un posto più sicuro e molto migliore, ma più vicino anche». In altre conversazioni, prima prudenti (il Libano e Beirut sarebbero state dapprima indicate con le iniziali «L» e «B«), sarebbe emersa secondo il gip la «spregiudicatezza» di Scajola: «Ti ricordi di Beirut? Prova a concentrarti perché passa così... Questi miei amici, quando sono andato a Beirut, poi sono venuti su... L’ex presidente, hai presente?», avrebbe sostenuto l’ex ministro. Un aiuto sarebbe giunto, secondo i pm, da un indagato in stato di libertà, Vincenzo Speziali, nipote omonimo di un ex senatore del Pdl, già candidato in passato senza successo a sindaco di Catanzaro e che , secondo la procura di Reggio Calabria, avrebbe svolto «un ruolo da protagonista» anche nella vicenda del soggiorno in Libano di Marcello Dell’Utri. Il nome di Speziali compare in uno dei decreti di perquisizione di ieri. Nell’atto s’ipotizzano gravi accuse: alcuni indagati, scrivono i magistrati, «prendono parte a un’associazione per delinquere segreta, collegata alla ’ndrangheta» al fine «di estendere le potenzialità operative del sodalizio mafioso». Infine alcune perquisizioni, concluse ieri mattina col sequestro di documenti e computer, hanno interessato altre 9 persone, compresi i figli di Amintore Fanfani, Giorgio e Cecilia: nessuno di loro è indagato e la procura li definisce unicamente «soggetti di interesse investigativo».

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