giovedì 20 dicembre 2018
Antonio Megalizzi meritava di essere conosciuto per il suo talento e non per un proiettile alla nuca
Amicizia, passione, rispetto. Riascoltiamo Antonio alla radio
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«Antonio ha immaginato con grande libertà ed entusiasmo, ma anche con profondo realismo, un'Europa senza confini e senza pregiudizi, alla quale non vedeva alternative». Lo ha detto monsignor Lauro Tisi, arcivescovo di Trento, durante l'omelia ai funerali di Antonio Megalizzi, il giornalista italiano vittima dell'attacco terroristico di Strasburgo. Il vescovo ha sottolineato che Antonio era «figlio della terra italiana, in lui riunita, non solo idealmente, dalla Calabria al Trentino, dal Sud al Nord della Nazione. Egli si è formato in questa città - ha proseguito - alla quale la Storia ha consegnato la vocazione ad essere "ponte" con l'Europa. Una terra che ha dato i natali a uno dei Padri fondatori del sogno europeo». L'INTERVISTA AL VESCOVO

Ogni vita è unica e ogni omicidio è tremendo ma la morte di Antonio Megalizzi di cui oggi celebriamo i funerali appare particolarmente meritevole di una riflessione. Antonio era giornalista e si trovava a Strasburgo per il progetto internazionale di radio universitarie Europhonica. Con degli amici stava lavorando all’idea di una radio europea, attraverso cui giovani e studenti di ogni Paese potessero raccontare in modo assolutamente libero l’Europa ai loro coetanei. Il proiettile sparato da Cherif Chekatt ha colpito un uomo che con la sua vita, con i suoi progetti, stava offrendo al crimine terroristico la risposta più profonda, la soluzione più efficace: quella della cultura.

Antonio Megalizzi meritava di essere conosciuto per il suo talento e non per un proiettile alla nuca, ma ora quel sangue sarà il combustibile che farà ardere la loro causa. Parlo al plurale perché Antonio non era solo. È di domenica scorsa la notizia della morte di Barto Pedro Orent-Niedzielski, 35 anni, detto Bartek, amico di Antonio e anche lui con la passione di raccontare l’Europa alla radio. Bartek era con Antonio la tragica sera del mercatino e anche lui era rimasto a terra in un lago di sangue dopo che il terrorista gli aveva puntato la pistola in fronte e aveva fatto fuoco.

Sono emersi nei giorni scorsi colori e toni che fanno assumere alle loro morte il senso di una vita – purtroppo brevissima – spesa bene. Antonio Megalizzi si può ancora ascoltare alla radio dove aveva un programma. È possibile sentire un podcast di Europhonica dove trovava le parole per raccontare il quantative easing e la riforma del copyright come facevano un tempo i radiocronisti quando non esisteva la televisione e dovevano spiegare un fuorigioco, o perché si negava un calcio di rigore, a chi era a casa e non vedeva. Antonio viveva a casa di Bart e insieme con tanti altri aveva creato un ponte tra mille radio universitarie, tra mille atenei europei, in cui dei ragazzi parlavano ad altri ragazzi dell’Europa portando i loro coetanei dentro i corridoi, li orientavano tra le commissioni, le istituzioni, i regolamenti e le delibere.

Quando nacque la televisione molti miopi pronosticarono la morte della radio ma, nell’era di internet, è ormai chiaro che la radio è lo strumento migliore per raccontare il colore della vita.

«Mi sono innamorato dell’Unione Europea. Sono molto, molto focalizzato e coinvolto in cose che stanno nascendo fortemente europeiste», aveva detto Megalizzi nel suo ultimo intervento alla radio per cui lavorava. Amicizia, passione, avventura, rispetto. Lo sforzo per rendere esplicito e chiaro ciò che gli addetti ai lavori raccontavano in modo implicito e oscuro. Fornire agli ascoltatori delle immagini, delle ipotesi di 'traduzione': chi lavora alla radio, soprattutto in una radio giovane, deve riempire ogni parola di passione e di fantasia. Niccolò Carosio si era inventato la manovra sulle fasce laterali, gli spioventi e i 'quasi gol': Antonio e i suoi amici erano su quella strada.

Il lavoro di una redazione giovane, il lavoro di chi costruisce ponti, soprattutto ponti radio, è geneticamente disposto ad accompagnare il proprio interlocutore lungo un viaggio che nessuno dei due ha ancora mai percorso.

Sarebbe stato bello parlare di questi valori, umani prima che editoriali, non perché mossi dalla follia omicida: ma, una volta accaduta la strage, non ci si può esimere da dire ciò che è giusto solo per paura della retorica. Perché se ogni vita interroga, se ogni morte violenta scuote, tutto ciò è ancora più vero se un terrorista uccide senza saperlo due giornalisti che con il loro lavoro ben fatto, autonomo, indipendente, sganciato da condizionamenti del passato e aperti alle suggestioni del futuro, creavano degli spazi di cultura, di riflessione, di dibattito, in cui tutto poteva accadere. Dove l’ascoltatore era condotto per mano ed educato ad accettare che l’impossibile potesse avvenire. Che gli uomini potessero imparare ad ascoltarsi e a collaborare. Che l’Europa si potesse fare.

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