martedì 12 aprile 2016
Il quadro dell'applicazione della Legge 194 all'indomani della sentenza del Consiglio d'Europa: per chi vuole abortire le strutture sono pronte e i tempi sono rapidi.
Aborto e obiezione di coscienza, ecco i numeri
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​Italia bacchettata dall’Europa perché, secondo un ricorso della Cgil, abortire da noi sarebbe impresa impossibile? Basterebbero i quasi 100mila bambini abortiti ogni anno, su una natalità oltre a tutto bassissima, per dimostrare che così non è.

Il pronunciamento di Strasburgo, peraltro, è solo un parere basato su dati vecchi, perché formulato prima della relazione aggiornata del ministero della Salute sulla legge 194 in Italia (di fine ottobre 2015), come ha confermato il ministro Lorenzin. Insomma, tanto rumore per nulla: i numeri dimostrano incontrovertibilmente che abortire in Italia non è affatto un’impresa, le donne non sono costrette a viaggiare o a lunghe attese, e i medici non sono sottoposti a superlavoro a causa dei tanti colleghi obiettori di coscienza.

È vero, infatti, che il 70% dei ginecologi sono obiettori, dunque esercitano un diritto costituzionale e scelgono di non partecipare all’eliminazione di una vita umana (obiezione prevista anche dalla legge 194), ma è anche vero che ciò non impedisce di praticare tutte le interruzioni di gravidanza richieste. Il numero di medici che praticano l’aborto, cioè, è congruo alla domanda: dal 1983 al 2013 le interruzioni volontarie di gravidanza sono più che dimezzate (da 234mila a 102mila circa), mentre i ginecologi non obiettori sono rimasti pressoché invariati (un centinaio in meno), con un conseguente dimezzamento del lavoro.

Più precisamente, se ogni ginecologo non obiettore nel 1983 praticava 3.3 aborti a settimana, nel 2013 a suo carico se ne contavano 1.6 a settimana in media: sempre troppi, visto che parliamo di vite eliminate, ma non un superlavoro. Anche considerando la situazione a macchia di leopardo, si va dagli 0.5 aborti a settimana della Sardegna (la percentuale più bassa) al massimo dei 4.7 del Molise: carico assolutamente normale.Secondo le accuse della Cgil (e del comitato europeo), le donne italiane sarebbero addirittura costrette a viaggiare, persino all’estero, o a spendere in strutture private, ma anche qui sono i fatti a smentire: l’Italia è forse l’unico Paese in cui fin da quando fu approvata la legge 194 l’interruzione di gravidanza è a costo fisso e può essere praticato in cliniche private solo se convenzionate e autorizzate. Comunque tutto a costo statale.

Non così ad esempio in Spagna, dove il 90% degli aborti avviene in strutture private e a pagamento. Quanto ai presunti viaggi entro la nazione, basti dire che il 91% degli aborti avvengono nella regione di residenza della donna, e di questi ben l’87% nella sua stessa provincia. In Italia le liste d’attesa per l’aborto sono in costante diminuzione da anni (diversamente da altre prestazioni): una volta rilasciato il certificato che consente l’interruzione di gravidanza, la legge 194 prevede una settimana obbligatoria per tutti, di riflessione. Passata questa, ben i due terzi degli aborti avvengono entro 7 giorni, mentre sono diminuiti a 14.6% quelli operati oltre le due settimane. Importante, poi, rilevare che non c’è correlazione tra attesa e numero di obiettori: in alcune regioni questi sono numerosi eppure le attese sono basse, in altre i medici che non vogliono praticare aborti sono meno ma i tempi si allungano lo stesso, perché il funzionamento della sanità (in tutti i campi) è un fattore che dipende dall’organizzazione delle singole Asl e dei singoli ospedali.

Cade anche l’accusa di un numero insufficiente di "punti Ivg" (ospedali in cui si praticano aborti) rispetto ai "punti nascita". È lampante: gli aborti sono il 20% delle nascite, eppure i punti Ivg non sono il 20% dei punti nascita ma ben il 74%. Dati che, se rapportati alle donne in età fertile, dicono che ogni 7 strutture in cui si partorisce ce ne sono 5 in cui si può abortire. Insomma, il ricorso della Cgil, che ricalca uno identico già presentato nel marzo 2014 contro l’Italia da International Planned Parenthood Federation ("Federazione Internazionale genitorialità pianificata"), cui il Consiglio d’Europa non aveva dato seguito, appare pretestuoso. Nel settembre 2015, in seguito al ricorso della Cgil, a Strasburgo si era tenuta un’audizione con un rappresentante del governo che difendeva la posizione dell’Italia. Poi, a fine ottobre, la relazione del ministero della Salute al Parlamento sull’attuazione della 194 spiegava tutto questo, per la prima volta entrando nello specifico Asl per Asl. Relazione che il comitato europeo, distratto, non ha letto.

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