Il Giubileo del Santo Calice: viaggio nella Valencia dello spirito
Al via un anno nel segno del turismo culturale e religioso alla scoperta dell'aspetto più intimo della città spagnola. Il Sacro Graal è custodito qui, nella cattedrale, dal 1437

Un anno di passione, fede e turismo culturale. Il terzo Giubileo del Santo Calice, inaugurato il 30 ottobre con una messa in Cattedrale, dove il Graal è custodito dal 1437, accende i riflettori su una Valencia più intima, meno conosciuta, intrisa di spiritualità e arte medievale. Concesso da Papa Francesco – Giubileo d’esordio nel 2015 e un bis nel 2020 “oscurato” dalla pandemia - il grande evento viene celebrato ogni cinque anni in modo perpetuo, offrendo la possibilità di ottenere l’indulgenza plenaria. Cinque, le condizioni per la grazia: la visita al Santo Calice, una preghiera secondo le intenzioni del Papa, la comunione eucaristica, la confessione, la carità. Un ricco programma di appuntamenti accompagnerà il Giubileo fino al 29 ottobre 2026, il giorno conclusivo, spalancandoci le porte di una città che rispolvera il suo antico retaggio medievale e rinascimentale, l’età dorata di Valencia, che 600 anni fa – era il 1425 – accolse la preziosa reliquia, dapprima custodita nel Palazzo Reale e dal 1437, appunto, in Cattedrale.
Perché a Valencia? La città del Regno d’Aragona (le altre erano Barcellona e Saragozza) viveva un’epoca di fulgore, potere e cultura, come testimoniano tanti monumenti: la Lonja de la Seda, uno spettacolare “tempio” – oggi patrimonio Unesco – allora dedicato al commercio della seta; l’Università del 1499, tra le più antiche di Spagna, la cui sede originaria è ora centro espositivo; ma anche la chiesa di San Nicola di Bari e San Pietro Martire, fondata dai Domenicani nel XIII secolo dopo la Reconquista dei Re Cattolici sui Mori. Per gli affreschi barocchi del Palomino e del Vidal (XVII) è considerata la “Cappella Sistina” di Valencia.
Tanto sfarzo è ancora palpabile negli angoli più antichi di un centro storico largamente ricostruito nel ‘900: elegante, ben curato e ingentilito da maestosi palazzi e mercati Liberty, da edifici razionalisti e modernisti; una sintesi eclettica senza sbavature. Popolata da 800mila abitanti, terza città in Spagna, a Valencia si avverte una qualità della vita fuori dal comune. Molto amata, tra gli altri, dai tanti giovani italiani espatriati. A riscattarne l’attenzione turistica fu, sul finire del ’90, il progetto della Città delle Arti e delle Scienze, opera dell’architetto Santiago Calatrava e fin dalla nascita un’attrazione di prim’ordine (www.visitvalencia.com).







Ma il protagonista di questi mesi eccezionali è il Calice dell’Ultima Cena, una coppa di 9,5 cm di diametro e 7 in altezza scavata nell’agata, una varietà di quarzo ricca di striature di colore. Il Graal è incastonato su un porta-calice medievale con due manici che formano un cuore e che è l’unica parte maneggiabile; come fecero Giovanni Paolo II e Benedetto XVI durante due memorabili visite a Valencia, sollevandolo dal supporto gemmato, senza toccare la coppa di agata. Oltre ai Pontefici, che possono afferrare i manici durante la funzione religiosa, l’unico autorizzato a toccare il porta-calice (per la conservazione della reliquia) è il suo custode, padre Don Alvaro Almenar, il sacerdote della Cattedrale.
La coppa in agata risale invece al I secolo a.C. come accertato da un’indagine archeologica del 1959/60, secondo cui in base al materiale, alla forma, all’area geografica di provenienza nulla può contraddire che sia il calice che Gesù tenne in mano durante l’Ultima Cena. D’altra parte in questi ventuno secoli c’è una lunga parentesi ascrivibile alla tradizione. I primi documenti sul Calice risalgono all’anno 1399, quando fu reclamato da Martino I d’Aragona nel palazzo dell’Aljafería di Saragozza. Prima d’allora, secondo la tradizione, era stato nascosto sui Pirenei, a Huesca, nella casa dei frati di San Lorenzo e da qui nel Monastero di San Juan de la Peña; un luogo mistico, estremamente isolato, sotto lo strapiombo di una montagna. Sarebbe giunto a Huesca, da Roma, intorno al 258 d.C. per salvarlo dalle persecuzioni cristiane dell’imperatore Valeriano. Da Saragozza – e torniamo alla storia – intorno al 1425 giunse a Valencia grazie ad Alfonso Il Magnanimo, il conquistatore del Regno di Napoli, che qui stabilì la sua corte, fulcro della corona Aragonese. Attraverso Napoli nella gotica Valencia comincerà a soffiare il vento del Rinascimento.
Nell’humus medievale, intanto, con la letteratura Arturiana era nato il mito del Sacro Graal. A infiammare l’immaginario cavalleresco fu Chrétien de Troyes con il poema “Perceval o il racconto del Graal” (1130-1190); poi ripreso dal poeta germanico Wolfram Von Eschenbach, autore del “Parzival” (1170-1220), e dall’inglese Thomas Malory in “La Morte di Artù” (1469-1485). Esaurito il filone arturiano, per riaccendere il mito del Graal bisognerà attendere Wagner (1813-1883), a cui il compositore tedesco dedicò due opere: Lohengrin e il Parsifal. La pittura, anche, aveva abbondato in rappresentazioni, soprattutto nell’area Valenciana dove il Calice fu dipinto da vari artisti, su tutti lo spagnolo Joan de Joanes (1507-1579) con le tele del “Cristo Eucaristico”. Nel ‘900, poi, l’avvento del cinema segnò un nuovo corso. Nel ‘51 fu il regista spagnolo Daniel Mangrané a inaugurare con il suo “Parsifal” una lunga serie di film giunta ai tempi recenti con tanta licenza poetica: da “Excalibur” a “Indiana Jones e l’Ultima Crociata”, fino a “Il Codice da Vinci”, per citare i più fantasiosi. Questo filo rosso che intreccia storia e miti sul Graal è il tema sia della mostra “Un Mondo da Riscoprire” (fino al 28 febbraio al MuVim – Museo delle Illustrazioni e della Modernità) che del nuovo Centro di Informazione sul Santo Calice, nell’Almudìn, l’antico magazzino del grano costruito su una fortezza musulmana. La regia è di due esperti, il direttore del MuVim Rafael Company e la presidente della Fondazione del Santo Calice, Alicia Palazón Loustaunau.
Degni di nota anche due episodi realmente avvenuti. Il primo risale alla guerra civile spagnola (1936-39), quando per salvare il Calice dagli attacchi alle chiese compiuti dai Repubblicani entrarono in scena quattro “eroi”: l’archivista della Cattedrale, Elías Olmos; la parrocchiana María Sabina Suey, che nascose il Graal in casa; l’anarchico “pentito” José Pellicer, che scoperta la manovra rinunciò a denunciarla, anzi incoraggiò a portarlo fuori città; e i coniugi Bernardo Primo e Lidia Navasquillo, che per due anni nascosero il Calice nel villaggio di Carlet. Il secondo episodio ha il sapore inquietante di uno scampato pericolo. Basandosi su un’interpretazione, poi scopertasi errata, di affermazioni di grandi artisti e pensatori (von Humboldt, Goethe, Schiller), quando il compositore Wagner, autore del Parsifal, proclamò che il “Castello del Graal” si trovava tra le montagne della Spagna gotica, il mito riesplose in tutta Europa. Alla ricerca del Calice si mosse addirittura Himmler, il criminale nazista della Soluzione Finale, il quale si recò al monastero di Montserrat, in Catalogna, ma dovette tornare in Germania a mani vuote. Voleva consegnarlo a Hitler, che era ossessionato dalle reliquie sacre. Fortunatamente la missione fallì grazie a una comprensibile confusione di voci, luoghi e credenze. In effetti ben prima dell’attestazione accademica del 1959-60 (avvenuta con le ricerche del professor Antonio Beltrán) in Europa circolavano varie “candidature” del Santo Calice, dal Graal di San Isidoro, a Leon, fino al Sacro Catino, di Genova; per citarne due. Oggi, chiariti i fatti, adesso e per sempre c’è solo Valencia.
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