martedì 2 agosto 2022
Stamattina il vertice da dentro o fuori. L'ipotesi di non candidare i leader nei collegi uninominali. Il pressing di +Europa (che ha la deroga sulle firme) sull'ex ministro: andiamo con i dem
Letta-Calenda, ultimo spiraglio. Il rischio di un campo spaccato in quattro
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Non hanno bisogno dei «disegnini » né Enrico Letta né Carlo Calenda. I rischi di un non-accordo sono dinanzi ai loro occhi: l’ex «campo largo» agognato dal segretario del Pd diventerebbe, il 25 settembre, uno spezzatino con quattro parti separate, anche di più contando le sinistre estreme che si metteranno in proprio: Azione da sola, Italia viva da sola, Pd (sebbene con Di Maio e Si/Verdi) sostanzialmente da solo, M5s da solo. Non c’è bisogno dei «disegnini», la parola più utilizzata ieri nei confronti/scontri tra gli sherpa dei due leader, nemmeno per capire le conseguenze: un vantaggio enorme, assoluto del centrodestra sulla torta degli oltre 200 collegi uninominali.

Ma se l’accordo non c’è ancora, è perché ci sono motivi politici che si aggiungono a veti, antipatie evidenti e diffidenze che stanno emergendo ora dopo ora. Una tentazione, più che altro: quella di massimizzare ciascuno il proprio risultato nella parte proporzionale. Il Pd per provare a giocarsi la sfida come primo partito e offrire un elemento diverso di valutazione all’opinione pubblica (e al capo dello Stato) dopo il 25 settembre. Azione per provare a svuotare con maggiori argomenti il voto dei delusi e dei moderati di centrodestra. La sinistra ecologista di Fratoianni e Bonelli per non finire vittima del fuoco amico di elettori e militanti che vedono come il fumo negli occhi l’intesa con una forza liberale come quella di Calenda.

Ma forse questa è una narrazione già preparata per giustificare l’eventuale fallimento dell’intesa. E quindi stamattina un tentativo di ricucitura ci sarà. Una strada, stretta, ci sarebbe. Non facile, ma possibile. In sostanza: evitare che tutti i leader si candidino nei collegi uninominali, fatto che creerebbe imbarazzo agli elettori dei rispettivi partiti. In sostanza né Calenda, né Letta, né Fratoianni, né Bonelli correrebbero nella parte maggioritaria. Né vi correrebbero quei candidati identificabili come ex forzisti, o di una sinistra ostile agli impianti di smaltimento rifiuti o energetici.

È uno schema che non sarebbe rischioso per Calenda, che conta di superare abbondantemente la soglia del 3% e che vuole usare le cinque pluricandidature per trainare il suo partito. E che non preoccupa, ovviamente, nemmeno Enrico Letta. Il problema sarebbe per i leader della lista Si/Verdi, che il superamento della soglia di sbarramento devono guadagnarselo nonostante sondaggi che sembrerebbero rassicuranti. Ma il problema sarebbe soprattutto per Luigi Di Maio, la cui corsa elettorale è partita in salita e che rischia di restare a bocca asciutta se gli alleati non rendessero disponibile un collegio uninominale abbastanza 'sicuro' (è dei giorni scorsi la notizia, smentita e bollata come fake news da Enrico Letta, secondo cui al ministro degli Esteri sarebbe stato assicurato un posto nel collegio 'rosso' di Modena).

La fumata bianca tra Letta e Calenda non è facile ma nell’ultimo round negoziale il segretario del Pd ha ancora un’arma, ed è la 'simpatia' della parte di Più Europa che fa riferimento a Emma Bonino. Non è un fattore secondario: Azione può evitare la raccolta delle firme sotto il sole agostano in virtù della possibilità di presentare, nel proprio simbolo, il logo di Più Europa. Se l’ex ministro, di fronte a una nuova mano tesa di Letta, opponesse altri veti, potrebbe avere problemi con l’ala radicale della sua forza politica. Con lo scenario sinora allontanato come amaro calice di dover ricorrere, per competere il 25 settembre, alla disponibilità del simbolo di Matteo Renzi, anch’esso esentato dalla raccolta firme. D’altra parte anche Enrico Letta ha problemi alla sua sinistra, dove ancora scotta la chiusura con M5s e che leggerebbe l’accordo con Azione come uno spostamento d’asse del Pd.

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